Il metodo del dottor Fonseca, un romanzo giallo di Andrea Vitali, pubblicato nel mese di agosto 2020, da Einaudi. Spatz è un posto dove non accade mai nulla, un borgo sperduto fra le montagne popolato da uomini sfuggenti e bizzarri. Poi un delitto, un assassinio «senza pretese» che non merita nemmeno gli onori della cronaca. E la storia assume le tinte di una vera e propria commedia gotica.
“Spatz, millesettecento metri. Il centro abitato piú grande di uno dei distretti piú piccoli dell’intero territorio, in sostanza una cacca di mosca a ridosso del confine, incassato fra due montagne: il Salter da una parte, il Danzas dall’altra. L’ultimo insediamento prima di una zona di rispetto, o terra di nessuno o comunque la si voglia chiamare: una striscia di una decina di chilometri segnalata in grigio sulla cartina, quasi fosse un’immensa voragine scavata tra l’estremo confine settentrionale del nostro Stato e ciò che si trova al di là. C’erano anche alcune macchie piú scure in quella striscia, quattro per la precisione, di cui ignoravo il significato. Avevano un po’ l’aspetto dei crateri disegnati sulle mappe lunari, ma piú probabilmente erano laghi. Quei bei laghetti di montagna dalle acque ferme, fredde e scure che nascondono un mostro.”
Dopo mesi trascorsi dietro una scrivania per aver ferito un passante nel corso di una retata, un ispettore viene inviato in un villaggio vicino alla frontiera di cui nemmeno conosceva l’esistenza. Ad attenderlo c’è un caso d’omicidio considerato già risolto. La vittima è una donna che conduceva un’esistenza appartata, e il presunto assassino è suo fratello, un giovane con disturbi mentali che abitava insieme a lei e che ora è scomparso. Facile, forse troppo. Magari è solo suggestione, magari dipende dal paesaggio, bello e violento, o magari è la presenza inquietante della clinica che sorge sul confine, nella «terra morta», un centro specializzato in interventi disperati, ma in quel luogo c’è qualcosa che non torna. Nella pensione che lo ospita l’investigatore fa conoscenza con alcuni personaggi quantomeno singolari, e a poco a poco davanti ai suoi occhi si apre uno scenario che nessuno avrebbe mai immaginato. Insospettabile anche per il potentissimo capo dell’agenzia governativa che gli ha affidato l’indagine: un funzionario spaventoso e ridicolo al tempo stesso, che dietro le spalle tutti chiamano «il Maiale».
“La finestra della mia camera incorniciava le tre cime del Danzas, appena innevate e sospese nel buio come in un quadro surrealista. La luna, coperta da quella centrale, si intuiva appena grazie a una fievole luminescenza, tanto debole che non riusciva a rendere visibile il contorno delle rocce fuso con la profondità della notte.”
Le recensioni sono generalmente positive, anche se qualcuno si lamenta di non ritrovare il Vitale che conosce, alcuni lo hanno trovato surreale. L’autore si allontana dalle ambientazioni a lui familiari e si avventura in un luogo tetro e inospitale tra montagne spaventose, un paese sporco e abitato da cittadini cinici. A me quest’aria gotica incuriosisce parecchio.
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Quella mattina la radiosveglia suonò alle sette. Squillava anche il telefono, lo capii dopo aver spento la radio ma non me ne preoccupai, non avevo alcuna voglia di alzarmi e rispondere. Lo lasciai continuare fino a che non smise e tornai a chiudere gli occhi. Ero a letto, ero vestito, cambiai fianco e feci un rapido bilancio di come mi sentivo. Mica tanto bene in realtà, mi girava ancora un po’ la testa, oltre ad avere la bocca asciutta e lo stomaco in subbuglio. La sera prima avevo bevuto troppo, in compagnia e poi da solo, tanto per tirare tardi; non era una novità, soprattutto in quel periodo. E adesso non avevo voglia di alzarmi. La cosa piú furba sarebbe stata darmi malato.
La mia camera da letto era al buio, da giorni non aprivo le finestre, puzzava di chiuso. Credo che a quel particolare odore contribuisse anche il disordine. Il disordine è come una bestia inquieta, marca il territorio, se ne impadronisce e distorce la visione delle cose. Però mi ci ero abituato. Cercavo, senza riuscirci, di capire che tempo facesse fuori. Non ricordavo le previsioni per quella fine di ottobre. La sera, rientrando, avevo guardato il cielo a bocca aperta, senza meraviglia per la sua profondità, sempre che ne avesse. La testa aveva cominciato a girarmi allora, ed ero rimasto fermo, aspettando che la vertigine mi passasse. Mi ero buttato sul letto cosí com’ero, coprendomi alla bell’e meglio.
Ascoltai il rombo delle macchine che arrivava da fuori forte e fastidioso – abitavo al pianoterra di un edificio grigio troppo vicino alla strada – sembravano scivolare sull’asfalto: un rumore strisciante, stava piovendo. Decisamente il tempo ideale per darsi malato.
Il telefono riprese a squillare. Suoni, rumori giungevano anche dagli altri piani: litigi, canzoni, passi. Segreti che non si potevano mantenere in una casa costruita al risparmio. Il telefono non si arrendeva. Risposi chiudendo gli occhi, nascosto dentro quel buio che mi rendeva audace. Mi attraversò la mente il pensiero di galleggiare, di restare cosí in eterno, di essere un oggetto immobile che partecipa al disordine che lo circonda. Di essere un ciottolo, un guinzaglio. Una scarpa, destra o sinistra.
– Cammina, – disse una voce. A proposito di scarpe. Una voce secca come una corda che ti trascina. Indisponente come qualcuno che suona con insistenza al campanello o accende la luce o apre le finestre per svegliarti all’improvviso. Tornai sulla Terra.
Perché era la voce del capo …