Donna in guerra è un romanzo di Dacia Maraini, pubblicato nel 1975, che riesce a rappresentare non solo il riscatto di una donna, ma anche le tensioni sociali e le rivolte dei giovani. Un ritorno in una Sicilia disgregata moralmente, l’incontro con un gruppo di giovani extraparlamentari, la lotta politica e di classe come mezzo di impegni per gli altri e di autorealizzazione personale.
“Se penso che quest’inverno devo tornare a insegnare mi viene da vomitare. In quella triste scuola di Zagarolo. L’autobus fino alla stazione. Poi il treno. Poi un altro autobus. Per trovarmi davanti la faccia stupida del direttore didattico. La voce incrinata dalla stizza, gli occhi macchiati di giallo, la bocca unta di caffè. –Signora Magro è in ritardo di tre minuti – I ragazzi mi aspettano raccontandosi barzellette oscene. Hanno i banchi pieni di fumetti pornografici.
Non sono una buona maestra, lo so. Invece di combattere contro l’idiozia, l’ignoranza, la volgarità, mi chiudo in una apatia sonnolenta. Non parlo con nessuno. I colleghi li sfuggo. Il direttore lo evito. Ai ragazzi lascio fare quello che vogliono. Insegno meccanicamente quello che devo insegnare, senza partecipazione, senza simpatia.”
Venticinque anni, siciliana d’origine, Vannina fa la maestra in una scuola elementare della periferia romana con rassegnata apatia. Suo marito Giacinto fa il meccanico. È «gentile, assorto, meticoloso», paternalista. La loro convivenza pare trascinarsi senza scosse, quando una vacanza estiva su un’isola mette bruscamente Vannina davanti ad una realtà diversa dal grigio mondo delle consuetudini. Con un linguaggio impastato di superstizioni e ossessioni e pregiudizi, le donne dell’isola la coinvolgono in una trama di storie inquietanti: le licenziosità dei ricchi, i figli dei pescatori che si vendono alle straniere. Ma per lei sarà importante soprattutto l’incontro con un gruppo di giovani extraparlamentari, che la trascinano nella loro attività politica. Dapprima ritagliata come per negativo nel poco spazio che gli altri – impegnati a vivere con furioso egoismo biologico – le lasciano, Vannina diventa, da pura spettatrice di appetiti e velleità, la protagonista della propria liberazione, e matura una presa di coscienza che la porterà a scelte radicali.
“Davanti a noi c’era la valle: le case digradanti verso il mare, le vigne ordinate in filari regolari, i campi di pomodori, i mandorli, i limoni. Lungo il mare, le ville di lusso, bianche, insolenti, a picco sulle onde.
Il porto scintillava: un quadrato di vetro verde chiuso dentro una cinta di pietre argentate. Più avanti il mare si faceva leggero, chiaro, piumato di bianco.
Tutta quell’aria libera, quel vento, quegli orizzonti aperti mi hanno dato un senso di vertigine. Abituata a stare sempre chiusa fra le mura del mio cortile, avevo perso il senso dello spazio. Ho serrato gli occhi feriti dalla luce. Avevo un dolore al petto.”
Svolto in forma di diario, il romanzo non riflette soltanto una esperienza personale, sia pure significativa ed emblematica. Nel dialogo fitto e concitato, nelle sorprese e negli scatti della vicenda, Dacia Maraini è riuscita a rappresentare i nodi e i problemi che agitano la vita civile nell’Italia degli anni ’70: non soltanto la condizione della donna (e soprattutto della donna del Sud), ma le tensioni sociali, i ritardi della scuola, la degradazione di Napoli e delle borgate romane, il lavoro a domicilio, la violenza delle istituzioni, la rivolta dei giovani. Il libro sembra avere talvolta la pregnanza di un documento sociologico, e nasce anche dall’effettiva diretta conoscenza che la Maraini ha della realtà che descrive; ma una scrittura viva e immaginosa e un ritmo sempre teso ne fanno un congegno narrativo di forte suggestione.
(Ed. Einaudi; 1975)
“Delle grosse gocce sono cadute sui tavoli creando lo scompiglio. Il cielo si era oscurato di improvviso. C’è stato un gran fracasso di sedie smosse, tavolini rovesciati, grida e risate.
I ragazzi con le moto sono volati via come uno stormo di uccelli, tutti insieme, lasciandosi dietro una scia di gas violaceo. Le tedesche si sono alzate, ma senza fretta e si sono rifugiate all’interno del bar. L’inglese con la scimmia si è incamminato ingobbito verso la strada per Casamatta. Barcollava. Rideva da solo delle acrobazie della sua bestiola che aveva infilato la testa dentro una manica per paura della pioggia squittendo petulante.
Solo la ragazza paralitica era rimasta dov’era, guardandosi intorno con aria proterva. La sua accompagnatrice dalla treccia grigia si è coperta la testa con un giornale. Il ragazzino vestito di bianco rideva a voce alta della gente che scappava terrorizzata. Le famiglie napoletane correvano via dimenticando le borse sui tavolini, perdendo gli zoccoli, gridando come se fossero state sorprese da un terremoto.
Giacinto si è accorto della pioggia solo quando una goccia gli è andata a cadere proprio dentro la coppa del gelato ormai sciolto.
– Piove Giannina.”
1° agosto 1970
Giacinto è andato a pescare. Si è alzato alle sette. Prima ancora di lavarsi la faccia ha allineato per terra i suoi attrezzi da pesca; li ha puliti uno per uno con lo straccio intinto nel petrolio.
Abbiamo preso il caffè in cortile, all’ombra dei banani. I vicini dormono ancora. E’ domenica. Giacinto si è infilato il costume da bagno nero. Ha inghiottito l’ultimo boccone di pane intinto nel latte. Si è avviato verso il portoncino che dà sulla strada. L’ho guardato camminare: la pelle bianca, farinosa, le lunghe gambe coperte di ricci biondi, la nuca sparuta, le spalle magre. Ha l’aria di un ragazzo indeciso e solitario.
– Che vuoi da mangiare?
Non mi ha risposto. Se n’è andato facendo dondolare il grosso sacco di tela gialla contro il polpaccio.
Mi sono vestita. Ho pulito la casa. Ho messo a posto il baule, tirando fuori la roba per la pesca: tute di gomma, fucili, arpioni, coltelli, maschere, boccagli, pinne, e una griglia per cuocere il pesce.
Quando ho finito erano le dodici. Avevo ancora da preparare i peperoni ripieni. Dovevo pulire l’insalata. Mi facevano male le gambe. E avevo una fitta ai reni. Mi sono buttata su una sedia a sdraio in cortile, la testa all’ombra, le gambe al sole.
Mi sono addormentata. Ho sognato che una talpa scavava un tunnel nel mio ventre. Mi sono svegliata con una fitta, un dolore sordo e fondo. Qualcosa di caldo mi bagnava le cosce. Ho cacciato una mano sotto la gonna. L’ho ritirata macchiata di sangue.
Ho respirato a fondo per vincere quel senso di tensione al ventre. Non avevo voglia di alzarmi. Ho lasciato che il sangue colasse, dolce, tiepido. Dopo dovrò lavare la tela della sedia, mi dicevo. Dovrò strofinarla col sapone. Dovrò metterla ad asciugare. Dopo. Non avevo voglia di mettermi in piedi. Ho chiuso gli occhi. Il sole batteva vischioso e bruciante sulle gambe nude.
Così comincia la mia vacanza: un rivolo di sangue benefico, la gioia di stare all’aperto, l’odore pungente del basilico. La scuola è lontana. Giacinto tornerà più tardi coi pesci. La casa è in ordine. Le camicie da stirare, il sugo da preparare, le pentole da pulire, sono rimandati a stasera. Ora non voglio pensare a niente. Sono contenta.Ore 24
Abbiamo mangiato il primo pesce pescato da Giacinto: uno scorfano dalla pelle a macchie marroni, arcigno, bellissimo. Poi ci siamo stesi sulle sdraio in cortile, a guardare il cielo fitto di stelle, la televisione dei vicini nelle orecchie.
Sono napoletani questi vicini, passano il tempo a litigare. Non so quanti sono. Gli strilli dei bambini vengono interrotti ogni tanto dalla voce roca di una donna.
Quando non litigano giocano al pallone. Questo pallone oggi è caduto diverse volte nel nostro cortile. La prima volta ho tardato a rimandarglielo e sono arrivati in cinque; hanno messo sottosopra il cortile, pestando con gli zoccoli le piantine di basilico, stroncando i rametti del pomodoro. Ora quando vedo il pallone cadere dalla nostra parte, glielo rilancio subito; lascio quello che ho in mano per correre a prenderlo.
Alle dieci mi sono messa a sparecchiare. Ho lavato i piatti. Ho sgrassato le pentole. Ho sciacquato i bicchieri. Ancora non mi sono abituata alla cucina stretta e lunga col pavimento di mattonelle rotte.
La casa che abbiamo affittato assomiglia a un girino, tutta testa e niente corpo: una stanza da letto con due finestre, una cucina buia, niente bagno. Il gabinetto è un buco sudicio: per lavarsi bisogna adoperare il lavello o il tubo per innaffiare.
In compenso abbiamo un bellissimo cortile, chiuso dentro un muro alto tre metri, segreto come un giardino arabo. Ci cresce il basilico, l’erba medica, la mentuccia, il pomodoro. E poi ci sono anche i gerani, bianchi e violetti, le zinnie, e gli anemoni.
Da una parte si levano due aranci dal tronco grigio, le foglie verdissime. Fanno piccole arance dure, amare. Addosso al muro che dà sulla strada c’è un fico alto e folto. I suoi rami storti arrivano a superare di un braccio la divisione di mattoni.
Al centro, come un cuore verde e lucido, un gruppo di banani. Lustri e pallidi, si muovono con un rumore di gomma strusciata.