Al centro del mirino è un thriller di James Patterson, con la collaborazione dello scrittore americano di origini irlandesi Michael Ledwidge, pubblicato in Italia il 19 novembre 2020, da Longanesi. Un altro capitolo della serie con protagonista il detective di New York Michael Bennet, che si trova intrappolato in un fuoco incrociato e deve decidere se uccidere o essere ucciso.
“Presi fiato mentre il jet rallentava e cercai di farmi coraggio.
Poco fa ero a casa che preparavo i pancake e ora mi tocca sventare la terza guerra mondiale? Cartoon Network non è niente, al confronto!”
La neve avvolge i viali dell’esclusivo Upper West Side di Manhattan. La tempesta è la copertura perfetta per una squadra di assassini altamente addestrata che si aggira per le eleganti strade del quartiere a caccia della sua preda, un professore che nasconde un segreto scandaloso. Poco distanti, in un clima di grande tensione, gli uomini più potenti della Terra si riuniscono per un vertice delle Nazioni Unite, convocato nel tentativo di appianare alcune pericolose divergenze. Anche il presidente degli Stati Uniti è presente: deve incontrare la sua controparte russa perché tra i due Paesi i rapporti non erano così compromessi dai tempi della Guerra fredda. La situazione però peggiora ulteriormente quando al dipartimento di polizia della città arriva un dispaccio dai servizi segreti: qualcuno attenterà alla vita del presidente. E quel qualcuno sembrerebbe essere un russo. A far fronte a questa minaccia c’è il miglior detective del NYPD: Michael Bennett. Bennett deve agire e neutralizzare le macchinazioni internazionali che potrebbero lacerare il Paese e innescare una guerra capace di sconvolgere il mondo intero. Tra alleanze costantemente in dubbio, false piste e nessuno al di sopra dei sospetti, solo Bennett può intervenire prima che il micidiale colpo degli assassini vada a segno.
“«Mike» disse Fabretti quando l’uomo chiuse la telefonata. «Ti presento Paul Ernenwein, FBI, nuovo responsabile della sede newyorkese dell’antiterrorismo.»
«Piacere» dissi. La stretta di mano di Ernenwein era così forte che temetti mi spezzasse i metacarpi.
«Il problema è questo» cominciò. Aveva l’accento di Boston. «L’Air Force One era appena decollato quando abbiamo ricevuto un’informazione credibile riguardo a un possibile attentato oggi a New York.»
Trasecolai, sbattendo le palpebre per l’incredulità. Avevo immaginato che si trattasse di una cosa grave, ma… Fu una vera mazzata.
«Un attentato… al presidente?» chiesi.”
Segnalo l’uscita di questo nuovo thriller con protagonista il detective Michael Bennet, credo che qui in Italia sia il nono della serie. Di recensioni in giro non ne ho trovate, ancora è troppo presto, spero di leggerlo e farne una al più presto. Mi piace molto questo protagonista che fa la sua prima apparizione nel romanzo “Il negoziatore“, dove affronta il periodo più duro della sua vita, in cui sua moglie Maeve, malata terminale di cancro, sta per lasciare lui e i loro dieci figli adottivi. Ci troviamo davanti ad un uomo eroe prima di tutto nella sua vita e poi nel suo ruolo di un comune poliziotto ligio al dovere, non è sicuramente il classico borioso, spaccone e tormentato detective che generalmente di trova nel genere thriller.
PROLOGO
BLOCCATI DALLA NEVE1
La neve era ammucchiata lungo il ciglio della strada, seppelliva le panchine nei parchi pubblici, copriva i segnali stradali, gli idranti e le ringhiere agli ingressi della metropolitana. Fino a quel momento ne era caduta una decina di centimetri, ma non accennava a smettere e ne erano previsti altri dieci, se non venti.
In posti come il Maine dieci centimetri di neve erano roba da ridere, ma a Manhattan una nevicata così in una serata di inizio novembre spingeva la gente ad annullare tutti gli impegni e chiudersi in casa.
Le due sagome scure in sella alla BMW R 1200 RT Sport che procedeva lentamente in direzione nord lungo Amsterdam Avenue, all’altezza di 135th Street, lo sapevano bene. Non solo: ci contavano. Era circa un mese che aspettavano un tempaccio così.
A destra apparve il campus del City College of New York: prima i palazzoni di cemento, brutti e moderni, poi gli edifici storici, neogotici.
Il motociclista sterzava con prudenza, attento a non finire con gli pneumatici da neve sul sale che era stato sparso sull’asfalto. Sapeva che sul sale si scivola più che sul ghiaccio, anche con le gomme adatte.
Era vestito esattamente come il suo passeggero: pantaloni e giacca riscaldante elettrica in Gore-Tex Tourmaster, indumenti termici EDZ, scaldacollo e guanti Windstopper. Il casco Scorpion era nero, lucido, da neve, con la visiera antinebbia fumé rigorosamente abbassata.
La missione era stata curata nei minimi dettagli. La pesante BMW era stata scelta per il baricentro basso, che garantiva stabilità e tenuta di strada.
Ormai erano in vista dell’obiettivo.
Erano a due isolati di distanza da West 141st Street.
Il centauro aveva pianificato e controllato ogni cosa talmente tante volte che avrebbe potuto disegnare a occhi chiusi il tratto ovest di 141st Street nel quartiere di Hamilton Heights, costeggiato da vecchi palazzi di cinque o sei piani un tempo eleganti, il ciabattino sulla sinistra e il parrucchiere caraibico sulla destra, con gli ingressi al di sotto del livello del marciapiede, accessibili attraverso una scaletta.
Avevano ripassato ogni fase ripetutamente, fino alla nausea, passo per passo, prendendo in considerazione ogni eventualità. Perché la sorpresa era soltanto uno dei tanti elementi necessari in un colpo come quello. Da sola non bastava. Occorreva preparare tutto, pianificare tutto, per poter agire con la massima efficienza mentre il bersaglio si chiedeva: «Ehilà, che succede?»
Il passeggero disse al microfono incorporato nel casco: «Aspetta. La macchina non c’è. Merda! Mi sa che è successo qualcosa. Forse conviene lasciar perdere».
Avevano installato una videocamera in un’auto di fronte all’obiettivo di 141st Street, che il passeggero stava controllando attraverso lo smartphone.
«Calma, calma. Va tutto bene. Sono semplicemente in ritardo per via della neve» replicò il centauro, accostando e fermandosi sul lato sinistro della strada, a mezzo isolato dall’angolo di 141st Street. «Aspettiamo, invece di lasciar perdere. Riusciremo a portare a termine la missione entro stasera, me lo sento. Continua a controllare la videocamera e avvertimi appena li vedi.»
Mentre aspettavano, il centauro chiuse gli occhi e ripassò il piano per l’ennesima volta. Amsterdam Avenue era il punto più alto della zona e 141st Street, la strada che scendeva verso l’obiettivo, aveva l’andamento di una scalinata: discesa fino a Hamilton, un tratto in piano e poi di nuovo una discesa fino a Broadway. Il luogo in cui si trovava il bersaglio era nella parte finale di 141st, fra Broadway e Riverside Drive, lato sud, sulla sinistra.
Era un ex condominio abbandonato con l’ingresso al centro, molto arretrato rispetto alla strada, e due ali ai lati. Il portone era in fondo a un lungo passaggio stile canyon. Offriva al bersaglio un punto di vista assai vantaggioso, consentendogli di avvistare chiunque si avvicinasse ben prima che raggiungesse il portone. La polizia aveva compiuto due irruzioni negli ultimi due anni ma, il tempo di entrare, era già sparito tutto.
Nel corso di accurate perlustrazioni, i due a bordo della moto avevano tuttavia identificato il punto più debole: verso quell’ora arrivava una delle numerose anziane di famiglia a portare da mangiare. Tre degli uomini di guardia all’ingresso generalmente uscivano a baciare e abbracciare la abuela di turno e ritirare teglie di stufato di maiale e melanzane, mentre il quarto restava accanto al portone aperto.
Al centauro piaceva quella posizione sopraelevata, il fatto di poter piombare addosso al bersaglio come in picchiata. Gli dava un istintivo senso di potere. Gli piaceva anche la potenza della BMW che sfrecciava giù per la discesa. Velocità e sorpresa erano due elementi di cruciale importanza.
Avevano bisogno di tutto il vantaggio possibile perché nel laboratorio clandestino c’erano sette uomini armati fino ai denti. Tutti avevano pistole mitragliatrici Glock 18 calibro 9 e, per ogni evenienza, nella parte adibita alla sintesi della droga c’erano anche due AK-47.
Erano le Glock 18 a preoccuparlo maggiormente, però: ottime armi da distanza ravvicinata, erano maneggevoli e ideali per sparare da dietro un angolo o attraverso ringhiere e balaustre. E il condominio abbandonato aveva vani scala piccolissimi e corridoi stretti come una cassa da morto.
Ma la cosa peggiore era che le Glock 18 erano sinonimo di grande intelligenza tattica. Il suo timore era aver trascurato qualche dettaglio, nonostante i controlli accuratissimi.
Ma neppure questo era completamente negativo: avere qualche timore induceva a non abbassare troppo la guardia.
In alto, i fiocchi di neve turbinavano nei coni di luce dei lampioni.
Guai a peccare di eccessiva sicurezza, in quel tipo di operazioni. Non bisognava mai dimenticare che gli imprevisti hanno la cattiva abitudine di metterti i bastoni fra le ruote quando meno te l’aspetti.
«È arrivata! La vedo» annunciò il passeggero picchiando sulla schiena del centauro. «La Chevy sta accostando davanti al portone. Vai! Vai! Vai!»
La BMW partì sgommando e, con la neve che schizzava da tutte le parti, corse giù per la discesa.