La legge dell’innocenza è un thriller scritto da Michael Connelly, pubblicato in Italia il 16 febbraio 2021, il sesto con protagonista Mickey Haller, l’avvocato fuori dagli schemi, dal passato difficile alle spalle, che prepara i processi dal sedile posteriore della sua Lincoln, un uomo pieno di difetti e fratellastro del detective Harry Bosch, che è chiamato a partecipare in questo caso dove la legge è troppo spesso l’arma vincente dei cattivi.
“Un caso di omicidio è come un albero. Un albero alto. Una quercia. Piantata con cura e cresciuta dallo stato. Annaffiata e potata al bisogno, esaminata per proteggerla da malattie e parassiti di qualsiasi tipo. L’apparato radicale viene costantemente controllato mentre si estende nel sottosuolo e si abbarbica alla terra. Non si bada a spese per difendere quell’albero. Alle persone che se ne occupano vengono concessi immensi poteri.
I suoi rami un po’ alla volta crescono e si sviluppano, splendidi. Forniscono un’ombra fitta a chi cerca la vera giustizia.
Rami che nascono da un tronco massiccio e forte. Prove dirette, prove circostanziali, scienza forense, movente e opportunità. L’albero deve opporre resistenza ai venti che lo sfidano.
E qui entro in scena io. Sono il boscaiolo. Il mio lavoro è abbattere l’albero e bruciarlo, riducendolo in cenere.”
È il suo processo più importante: quello in cui l’imputato è lui. Ma in un’aula di tribunale anche l’innocenza può essere un crimine. È una sera di ottobre a Los Angeles, e Mickey Haller , a bordo della sua Lincoln, si allontana dal bar dove ha offerto da bere a un nutrito gruppo di colleghi per festeggiare la vittoria in un processo. Quando una volante della polizia gli fa segno di accostare, Haller è tranquillo: lui non ha bevuto neanche un goccio, come ormai da molti anni. Ma non è per questo che l’agente Milton l’ha fermato. A quanto pare, qualcuno ha rubato la targa della Lincoln. Lo stupido scherzo di un collega, pensa Haller. Ma quando l’agente lo costringe ad aprire il bagagliaio, quello che Haller si trova davanti è tutt’altro che uno scherzo. Un cadavere non è mai uno scherzo. Specialmente se è quello di un tuo ex cliente, e serve per incastrarti. Haller – con il fedele investigatore Cisco e la socia Jennifer Aronson – comincia così la sua battaglia più importante: difendersi dall’accusa di omicidio. Nonostante prove schiaccianti e assurde contro di lui, e un avvocato dell’accusa nota come Dana Braccio della Morte, decide di difendersi da solo in tribunale. E al suo fianco avrà un alleato d’eccezione, qualcuno che gli deve un grosso favore e non lascerà che le cose si mettano troppo male: Harry Bosch.
“«Ha detto che vuol dare una mano, se lo vogliamo in squadra.»
Esitai. C’era sempre stato un certo livello di attrito tra Bosch e Cisco. Derivava dal fatto che Bosch era un poliziotto, anche se ora in pensione, e quindi in genere schierato dalla parte dell’accusa, mentre Cisco aveva sempre lavorato dalla parte della difesa. L’aiuto di Bosch poteva essere utilissimo, per via della sua esperienza e dei suoi contatti. Ma poteva anche alterare la chimica della squadra. Non dovetti pensarci a lungo: fu Cisco a porre fine alla mia incertezza.
«Abbiamo bisogno di lui» disse.”
E’ uscito da poco qui in Italia e le recensioni sono poche, ma la maggior parte sono positive. Forse gli amanti di Harry Bosch resteranno delusi dal fatto che compare poco, anche se determinante. Qualcuno lamenta un finale frettoloso e deludente. Non ci resta che leggerlo e farci una nostra opinione.
PARTE PRIMA
TWIN TOWERS1
Lunedì 28 ottobre
Era stata una buona giornata per la difesa. Avevo accompagnato un uomo fuori dall’aula del tribunale. Avevo trasformato davanti alla giuria un’accusa di percosse in un caso di legittima difesa. La cosiddetta vittima aveva alle spalle un curriculum di violenze da lui commesse che durante il controinterrogatorio erano state confermate sia dai testimoni dell’accusa, sia da quelli della difesa, che includevano una ex moglie. Il colpo del KO lo avevo sferrato quando avevo richiamato il querelante sul banco dei testimoni e lo avevo condotto lungo una linea di interrogatorio che gli aveva fatto perdere le staffe. E a quel punto mi aveva minacciato, aveva detto che avrebbe voluto incontrarmi fuori da lì, solo lui e io.
«Per poi sostenere che sono stato io ad aggredire lei, come in questo caso?» gli avevo chiesto.
L’accusa aveva obiettato, il giudice aveva accolto l’obiezione. Ma non c’era bisogno d’altro. Lo sapevano il giudice, il pubblico ministero e tutti i presenti in aula. La giuria si era ritirata per deliberare e dopo meno di mezz’ora avevo ottenuto un verdetto di assoluzione. Non era un record per me, ma ci andava vicino.
Era una specie di regola non scritta in città, ogni avvocato difensore aveva il sacro dovere di festeggiare un verdetto di assoluzione, proprio come un giocatore di golf festeggia al club quando va in buca in un colpo solo. In pratica, si trattava di offrire da bere. La mia festa ebbe luogo al Redwood, in Second Street, a pochi isolati dal centro civico, dove si trovavano non meno di tre tribunali da cui attirare invitati. Il Redwood non era certo il Country Club, ma era conveniente. Il party, cioè la bevuta gratis, iniziò presto e finì tardi. Quando Moira, la tatuatissima barista, mi passò il conto, diciamo solo che mi costò più di quanto mi avrebbe dato il cliente che avevo appena fatto assolvere.
Avevo lasciato la macchina in un parcheggio su Broad-way. Mi misi al volante, uscii svoltando a sinistra e poi ancora a sinistra per tornare in Second Street. I semafori mi furono propizi e seguii la strada fino al tunnel che passava sotto Bunker Hill. Ero a metà del tunnel quando vidi alle mie spalle un’auto della polizia. Misi la freccia e mi spostai sulla corsia dei veicoli lenti per lasciarla passare. Ma la polizia fece la stessa cosa e si posizionò a un paio di metri dalla mia macchina. A quel punto capii. Volevano proprio me.
Uscii dal tunnel, svoltai a destra su Figueroa e mi fermai. Spensi il motore e abbassai il finestrino. Nello specchietto laterale della Lincoln vidi un agente in divisa scendere e dirigersi verso di me. Nell’auto di pattuglia non c’era nessun altro. Quell’agente lavorava da solo.
«Per favore, favorisca patente, libretto di circolazione e assicurazione» disse subito.
Mi voltai a guardarlo. Il cartellino sul petto diceva Milton.
«Certamente, agente Milton» risposi. «Ma posso chiederle perché mi ha fermato? So di non aver superato i limiti e i semafori erano tutti verdi.»
«Patente» rispose. «Libretto. Assicurazione.»
«Be’, immagino che prima o poi me lo dirà. La patente è nella tasca interna della giacca. Il resto nel comparto portaoggetti. Cosa vuole vedere prima?»
«Cominciamo dalla patente.»
«Bene.»
Mentre prendevo il portafoglio ed estraevo la patente, mi domandai se Milton avesse tenuto d’occhio il Redwood e avesse visto uscire diversi avvocati forse troppo brilli per guidare. Si era sparsa la voce che alcuni poliziotti di pattuglia lo facevano, durante i festeggiamenti per un verdetto di assoluzione: si appostavano e fermavano gli avvocati difensori per una serie di contravvenzioni.
Consegnai a Milton la patente e aprii il portaoggetti, passandogli anche gli altri documenti richiesti.
«Ora vuol dirmi di cosa si tratta?» chiesi. «So di non aver…»
«Scenda dall’auto.»
«Oh, avanti. Sul serio?»
«Per favore, scenda dall’auto.»
«Come vuole.»
Aprii la portiera con forza, costringendolo a fare un passo indietro, e scesi.
«Per sua informazione,» dissi «ho trascorso le ultime quattro ore al Redwood, ma non ho bevuto nemmeno una goccia d’alcol. Non bevo da più di cinque anni.»
«Buon per lei. Ora vada dietro la sua macchina.»
«Controlli che la telecamera sulla sua auto di pattuglia sia accesa, perché sarà una scena imbarazzante.»
Andai dietro la Lincoln, illuminato dai fari dell’auto del poliziotto.
«Vuole che cammini lungo una linea retta?» chiesi. «O che conti alla rovescia, che mi tocchi il naso con un dito, o altro? Sono un avvocato, conosco le regole del gioco e questa è una stronzata.»
Milton mi seguì dietro la macchina. Era alto e snello, bianco, con i capelli a spazzola in alto e quasi rasati sui lati. Vidi il distintivo della Divisione Metro sulla spalla e quattro galloni sulla manica della divisa. Sapevo che un gallone equivaleva a cinque anni di servizio, quindi avevo a che fare con un veterano.
«Vede perché l’ho fermata, signore?» disse. «La sua auto è senza targa.»
Abbassai gli occhi sul paraurti posteriore della Lincoln. La targa non c’era.
«Merda» dissi. «Ah… dev’essere uno scherzo di qualche tipo. Abbiamo festeggiato perché oggi ho vinto un caso e il mio cliente è stato assolto. La mia targa dice IWALKEM, “li faccio assolvere”, e uno degli invitati deve aver pensato che rubarmela fosse un bello scherzo.»
Provai a pensare a chi era uscito dal Redwood prima di me, e a chi poteva aver architettato uno scherzo del genere. Daly, Mills, Bernardo… poteva essere stato chiunque.
«Guardi nel bagagliaio» disse il poliziotto. «Forse è lì.»
«No, avrebbero avuto bisogno della chiave per metterla nel bagagliaio» risposi. «Ora faccio una telefonata e vedo se…»
«Non farà nessuna telefonata finché non abbiamo finito.»
«Sciocchezze. Conosco la legge. Non sono in stato d’arresto, posso fare una telefonata.»
Tacqui per vedere se aveva obiezioni. Notai la bodycam sul suo petto.
«Il cellulare è in macchina» dissi, e feci per tornare verso la portiera aperta.
«Fermo!» esclamò Milton, alle mie spalle.
Mi voltai. «Cosa c’è?»
Accese una torcia e puntò il fascio di luce sull’asfalto, dietro la macchina. «È sangue, quello?»
Feci un passo indietro e osservai l’asfalto crepato. La luce era puntata sotto il paraurti, su una macchia di liquido scura al centro e quasi traslucida ai bordi.
«Non lo so» risposi. «Ma qualunque cosa sia, era già lì. Io…»
Mentre lo dicevo, entrambi vedemmo un’altra goccia cadere dal paraurti sulla strada.
«Apra il bagagliaio, per favore» disse Milton, inserendo la torcia in una fondina alla cintura.
Nella mia mente si affollarono una quantità di domande, ma soprattutto mi chiesi cosa potesse nascondersi nel mio portabagagli e se Milton avesse il diritto di aprirlo nel caso mi fossi rifiutato di farlo.
Un’altra goccia di quello che sembrava un fluido corporeo cadde sull’asfalto.
«Mi faccia pure una multa per la mancanza della targa, agente Milton» dissi. «Ma il portabagagli non lo apro.»
«Allora mi costringe ad arrestarla» replicò. «Metta le mani sul bagagliaio.»
«Arrestarmi? Per cosa? Io non…»
Milton mi afferrò, facendo forza con il suo peso, e mi spinse fino a farmi piegare sul bagagliaio.
«Ehi! Non può…»
Mi torse le braccia dietro la schiena e mi ammanettò. Poi mi prese per il colletto di giacca e camicia e mi tirò su. «È in arresto.»
«Per cosa? Non può semplicemente…»
«Per la sua e la mia sicurezza, ora la faccio salire sul sedile posteriore dell’auto di pattuglia.»
Mi afferrò un gomito e mi fece girare, poi mi condusse verso la portiera posteriore della sua auto. Mi mise una mano sulla testa e mi spinse sul sedile in plastica. Quindi si chinò per allacciarmi la cintura.
«Sa che non può aprire il mio bagagliaio, vero? Non ci sono fondati motivi. Non sa se quello sia davvero sangue e non sa se venga dall’interno dell’auto. Potrebbe essere qualcosa che ho pestato con le ruote mentre viaggiavo.»
Milton si raddrizzò e mi guardò. «Circostanze impellenti» disse. «Qualcuno, lì dentro, potrebbe aver bisogno d’aiuto.»
Sbatté la portiera. Lo osservai avvicinarsi alla Lincoln e cercare una molla di apertura. Non trovandola, entrò in macchina dalla portiera aperta e prese le chiavi dal cruscotto.
Aprì il bagagliaio, spostandosi subito sul lato per evitare di trovarsi sotto tiro nel caso dentro ci fosse qualcuno armato. Il portello si sollevò e si accese la luce interna. Milton puntò anche la torcia. Si mosse da sinistra a destra, osservando l’interno del bagagliaio. Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere, ma dai movimenti del poliziotto, che si chinò per vedere meglio, era chiaro che dentro c’era qualcosa.
Milton voltò la testa per parlare alla radio che portava sulla spalla. Probabilmente stava chiedendo rinforzi. E forse un’unità della Omicidi. Non avevo bisogno di dare un’occhiata per capire che aveva trovato un cadavere.