Vivida mon amour è un libro di Andrea Vitali, pubblicato nel mese di marzo 2021, da Einaudi. Una commedia lieve, acuta e ironicamente amara. Un racconto, che contiene tutto il «piccolo mondo antico» della provincia di cui Andrea Vitali è il cantore. Anni Ottanta, in una cittadina sulle rive di un lago del Nord Italia, al confine con la Svizzera: un aspirante medico condotto si invaghisce di una misteriosa ragazza incontrata a una festa.
«Traversare il lago, una sera di fine novembre, sotto un magnifico cielo stellato e una luna che di lí a poco si sarebbe palesata da dietro la montagna. Si poteva desiderare di meglio? Certo, c’era una leggera onda, il traghetto beccheggiava. Circa a metà traversata, mi accingevo a celebrare il paradiso terrestre che ci circondava. Mi voltai e… – Ho un po’ di nausea, – disse lei».
Per un dottorino neolaureato, con le tasche vuote, dedicarsi a un corteggiamento serrato può risultare oneroso e parecchio frustrante. Soprattutto se la donna dei propri sogni si rivela un tipo complesso, una «bisbetica indomabile» refrattaria alla poesia, benestante ma poco incline a spendere e che regge l’alcol come un carrettiere. Ad aggiungere imbarazzi e malintesi, il nome della giovane non è ben chiaro: Viviana, no Vivína, anzi Vívina… Vívida! Meglio evitare di pronunciarlo. Tra incontri carichi di aspettative – e che ogni volta sembrano trasformarsi in addii – costose peregrinazioni fra malinconici paesi lacustri, goffaggini e incomprensioni, per i due, tanto diversi, ci sarà un lieto fine?
Poco più di 130 pagine che leggerò al più presto con la consapevolezza del fatto che è un racconto e con la curiosità di ritrovarmi negli anni ottanta e nella scrittura di Vitali che amo.
1.
Fin dal momento in cui la conobbi un pensiero prese a perseguitarmi e inutile fu ogni tentativo di liberarmene: che io fossi la femmina e lei il maschio. E mi serviva a poco controbattere a me stesso che il sembiante ci aveva destinato alle rispettive categorie di genere: io un uomo e lei una donna.
Cercai aiuto anche in Platone, nel suo Simposio. Non contemplava, o almeno mi pareva che non contemplasse, mezze misure di questo tipo, ibridi, equivoci siffatti nell’eterno rincorrersi del femminile e del maschile per ritrovare la primitiva completezza.
Tra l’altro beveva piú di me.La incontrai una sera d’estate – correva il mese di luglio – durante una festa di laurea, ai tempi in cui il minaccioso «palloncino» era ancora di là da venire. Il cielo era blu cobalto, l’aria mite profumava di erba appena tagliata. Il privilegio di essere giovani dominava l’atmosfera. Il luogo, un paese sulla sponda opposta del lago. Io, quale medico fresco di laurea, non avevo ancora un lavoro fisso e per sbarcare il lunario facevo piccole sostituzioni qua e là.
Eravamo già belli brilli.
Per quanto riguardava me, avevo una sbronza che mi lasciava immaginare di poter ritornare a casa a nuoto, come se andare da riva a riva fosse un gioco da ragazzi. Mi vedevo entrare in quelle acque tiepide come brodo, nuotavo lentamente… Mi pareva di sentire un rumore morbido, piacevole come musica per ambienti. Grazie all’alcol avevo una visione chiara di quel nuotatore solitario, armonioso, dalle solide spalle. Dentro di me seguivo il ritmo delle bracciate. La traversata non finiva mai, forse perché non riuscivo a immaginarmi sull’altra riva in mutande. Allora continuavo a nuotare con la fantasia, e continuavo a bere.
Anche lei.
Un bicchiere via l’altro.
Anzi, un flûte.
Di vino rosso.
Noblesse.
Per bere vino rosso in bicchieri che di solito ospitano champagne oppure bollicine bisognava avere un alto concetto di sé e discendere da nobili lombi. Fu la conclusione del mio ragionamento quando, dopo un bel venti minuti che la guardavo, mi resi conto che appunto la stavo guardando. Giacché anche lei si era accorta del mio sguardo un po’ troppo fisso, cercai di dissimulare alzando il bicchiere e mormorando «salute». Cosí la vidi muovere i primi passi della sua vita verso di me.
Io stavo in piedi in quel momento. Animato da un movimento ondulatorio che sembrava volersi accodare alla musica che era nell’aria, ma in realtà dovuto a un principio di deragliamento del sistema vestibolare. In ogni caso sedetti per non dare l’impressione di aver abusato del buffet liquido. Peraltro non avrei dovuto preoccuparmene, poiché mentre lei si avvicinava la vidi sbandare un paio di volte; il suo bicchiere si piegò di lato perdendo almeno metà del contenuto. Per evitare ulteriori deviazioni dalla linea di marcia, dovette allargare il compasso, avanzando come se fosse reduce da una lunga cavalcata.
Il sorriso con il quale si presentò fu però regale. Ritta davanti a me chiese: – Sei da solo?