Quando si avvera un desiderio è un romanzo di Nicholas Sparks, pubblicato in Italia il 6 luglio 2021, da Sperling & Kupfer e tradotto da Alessandra Petrelli. Ritorna il narratore dei sentimenti con una nuova storia struggente sui doni inaspettati che ci fa la vita quando sembra averci tolto tutto, e sulle vie misteriose che percorre l’amore fino a ritrovarci.
“Ero convinta di essere matura per la mia età, ma in realtà l’età adulta era ancora un miraggio e forse in parte era colpa delle scuole superiori. Riflettendoci, avevo la sensazione di aver passato tutta la vita a cercare di risultare simpatica agli altri, invece di provare a capire se gli altri fossero simpatici a me. Bryce non aveva frequentato la scuola, non era stato sottoposto a tutte quelle stupide pressioni, quindi forse per lui il problema non si era mai posto perché era sempre stato libero di essere se stesso. Chissà come sarei diventata se non fossi stata tanto impegnata a essere identica alle mie amiche.”
Maggie ha sempre nascosto la sua storia. Chi la conosce ora non sa nulla del suo più grande amore. Lei aveva sedici anni, era lontana dalla sua famiglia ed era in attesa di un bambino che avrebbe dato in adozione: fu allora che incontrò Bryce. Lui era poco più grande di lei, non la giudicava per quel pancione che cercava di nascondere, e le insegnò tutto su quella che sarebbe diventata anche la passione di Maggie: la fotografia. Il loro primo bacio fu perfetto. Il loro amore fu unico, di quelli che capitano soltanto una volta nella vita. Adesso, a vent’anni di distanza, Maggie è un’affermata fotografa di viaggi. Ha immortalato gli angoli più diversi e singolari del mondo e ha aperto una galleria a New York, dove sono esposti i suoi scatti più belli –che Bryce, però, non ha mai visto. Ci sono ancora centinaia di luoghi che Maggie vorrebbe visitare, e che ha annotato in un diario chiuso in un cassetto, ma la vita l’ha costretta a una dolorosa battuta d’arresto. In quello strano e solitario Natale, ha accanto solo il giovane assistente della galleria, al quale riesce incredibilmente a confidare la verità che da tempo ha chiuso in fondo al cuore. E quando lui le chiede quale regalo desidererebbe sopra ogni cosa, Maggie, che credeva di conoscere la risposta, si scopre a rimettere in discussione tutto ciò che aveva sempre creduto più importante.
“Nel chiarore delle luci dell’albero alla galleria, il ricordo di quel bacio era vivido nella mente di Maggie. Aveva la gola secca… chissà per quanto tempo aveva parlato. Come al solito, Mark l’aveva ascoltata in silenzio mentre ripercorreva gli eventi di quel periodo della sua vita. Era chino in avanti, gli avambracci appoggiati sulle cosce, le mani intrecciate.
«Wow», sospirò alla fine. «Il bacio perfetto?»
«Già», confermò lei. «So che sembra strano, ma… fu proprio così. Ancora oggi è quello il bacio a cui ho paragonato tutti gli altri.»”
Le recensioni sono tutte positive per quest’ultima opera di Nicholas Sparks, maestro della narrativa romantica, c’è chi dice che sia il suo libro migliore, significa che dovrebbe superare “Le pagine della nostra vita“, missione davvero ardua, ma proprio per questo mi incuriosisce. Ricordiamoci che quando si legge Sparks dobbiamo munirci di fazzoletti.
«Alla fine non è forse questa la cosa più importante della vita? Essere conosciuti davvero e amati da chi hai scelto?»
Arriva Natale
Manhattan, dicembre 2019
Tutte le volte che si avvicinava dicembre, Manhattan si trasformava in un luogo che Maggie riconosceva a stento. I turisti affollavano i teatri di Broadway e inondavano i marciapiedi fuori dai grandi magazzini del centro, un fiume di pedoni in lento movimento. Boutique e ristoranti traboccavano di avventori carichi di sacchetti, gli altoparlanti nascosti diffondevano musica natalizia e persino le hall degli hotel scintillavano di addobbi. L’albero del Rockefeller Center brillava di luci colorate e dei flash di migliaia di iPhone e il traffico cittadino, mai scorrevole neppure nei momenti migliori, era così intenso che spesso si impiegava meno tempo a spostarsi a piedi piuttosto che in macchina. Ma anche camminare presentava i suoi problemi: tra i palazzi soffiava spesso un vento gelido che obbligava a indossare biancheria termica, felpe e giubbotti chiusi fino al mento.
Maggie Dawes, che si considerava uno spirito libero assetato di avventura, aveva sempre amato «l’idea» di una New York in veste natalizia, a dire il vero più a livello teorico, come dire: Toh, guarda che bella cartolina. In realtà, al pari di molti newyorkesi, cercava in tutti i modi di evitare il centro durante le feste. Pertanto, non si allontanava mai troppo da casa sua a Chelsea, o più spesso volava verso climi più miti. Per la verità, lavorando come fotografa di viaggio, non si considerava tanto una newyorkese, quanto una nomade che per caso aveva la residenza in città. Sul diario che teneva nel cassetto del comodino aveva compilato una lista di più di cento posti che ancora voleva visitare, alcuni così sconosciuti e lontani che persino raggiungerli avrebbe costituito una sfida.
Arricchiva l’elenco da quando aveva lasciato il college, vent’anni prima, e durante i suoi viaggi aveva visto tanti posti che per qualche motivo avevano stimolato la sua immaginazione. Con la macchina fotografica a tracolla, aveva visitato tutti i continenti, più di ottantadue Paesi e quarantatré dei cinquanta Stati federali. Aveva scattato decine di migliaia di fotografie, dalla fauna selvatica nel delta dell’Okavango in Botswana all’aurora boreale in Lapponia. C’erano fotografie che la immortalavano sull’Inca Trail, altre sulla Skeleton Coast in Namibia, altre ancora tra le rovine di Timbuctù. Dodici anni prima aveva imparato a fare le immersioni e aveva passato dieci giorni a documentare la vita sottomarina a Raja Ampat; quattro anni prima aveva raggiunto il famoso Paro Taktsang, o nido della tigre, nel Bhutan, un monastero buddista costruito nel fianco di una montagna con una vista spettacolare sull’Himalaya.
Tanti l’ammiravano per le sue avventure, ma lei aveva imparato che il termine «avventura», può avere molte sfumature, e non tutte positive. Un esempio su tutti era l’avventura in cui si era imbarcata adesso – come a volte la descriveva ai suoi follower su Instagram e YouTube –, quella che la costringeva a rimanere praticamente confinata nella sua galleria o nel suo piccolo bilocale sulla Diciannovesima Ovest, invece di recarsi in località più esotiche. La stessa che qualche volta le aveva fatto avere pensieri suicidi.
Ovviamente non lo avrebbe mai fatto. La sola idea la terrorizzava, come aveva confessato in uno dei molti video che aveva postato su YouTube. Per più di dieci anni aveva girato video piuttosto convenzionali, tutti incentrati sulla fotografia: descriveva i criteri in base ai quali sceglieva un’inquadratura, offriva tutorial di Photoshop e recensiva i nuovi apparecchi fotografici e i loro accessori. Pubblicava in genere due o tre volte al mese, e questi video, insieme alle pagine Instagram e Facebook e al blog sul suo sito web avevano sempre riscosso notevole successo tra gli appassionati di fotografia e consolidato la sua reputazione professionale.
Tuttavia, tre anni e mezzo prima, sotto l’impulso del momento, aveva postato sul suo canale YouTube un video che non c’entrava niente con la fotografia. Il filmato, una descrizione sconclusionata e senza i filtri della paura e dell’incertezza che l’avevano assalita quando aveva scoperto di avere un melanoma al quarto stadio, forse non avrebbe dovuto essere reso pubblico. Tuttavia, ciò che immaginava sarebbe stata una voce solitaria che riecheggiava dalle vuote vastità di Internet aveva invece catturato l’attenzione del pubblico. Non sapeva bene come, ma quel video – tra tutti quelli che aveva pubblicato – aveva creato un rivolo, quindi un flusso costante e infine un diluvio di visualizzazioni, commenti, domande e like da gente che non aveva mai conosciuto né lei né il suo lavoro come fotografa. Sentendosi in dovere di rispondere a quanti erano stati colpiti dalla sua storia, aveva pubblicato un secondo video relativo alla sua malattia che aveva ottenuto un successo ancora maggiore. Da allora aveva continuato a postare filmati dello stesso tenore, soprattutto perché le sembrava di non poter fare diversamente. Negli ultimi tre anni aveva parlato delle varie terapie e degli effetti che avevano avuto su di lei, arrivando addirittura a mostrare le cicatrici degli interventi. Discuteva di ustioni da radiazioni e nausea e caduta di capelli e si interrogava apertamente sul significato della vita. Rifletteva sulla paura di morire e speculava sull’esistenza di una vita dopo la morte. Erano argomenti seri ma, forse per non cadere in depressione, si sforzava di mantenere un tono il più allegro possibile. Magari era questa una delle ragioni della sua popolarità, ma chi poteva dirlo con sicurezza? L’unica certezza era che per qualche motivo, quasi suo malgrado, era diventata la protagonista del suo stesso reality sul web, un reality iniziato con speranza ma che lentamente si era avviato verso l’unica, inevitabile conclusione.
E, com’era prevedibile, all’approssimarsi del finale, il suo pubblico era ulteriormente aumentato.