La gita in barchetta è un romanzo di Andrea Vitali, pubblicato il 28 ottobre 2021, da Garzanti. Una storia di riscatto sociale e destini intrecciati, dove le donne sono protagoniste, mentre il paese guarda e, soprattutto, parla.
“Febbraio mordeva come non mai. Da giorni soffiava vento da nord, freddo e teso, che fischiava senza mollare un attimo. Di notte soprattutto nei giri che l’aria faceva nelle contrade pareva di udire versi di animali, gridi, addirittura parole storpiate.”
Nella Bellano insolitamente ventosa di inizio 1963, Annibale Carretta dovrebbe essere conosciuto come ciabattino. Dovrebbe, perché la sua indole è sempre stata un’altra. Nato «strusciatore di donne», uno che approfitta della calca per fare la mano morta, nella vita ha rimediato più sganassoni che compensi per le scarpe che ha aggiustato. Ed è finito in miseria, malato e volutamente dimenticato dai più. Ma non dalla presidentessa della San Vincenzo, che sui due locali di proprietà del Carretta, ora che lui sembra più di là che di qua, ha messo gli occhi. Vorrebbe trasformarli nella sede della sua associazione. Per questo ha brigato per farlo assistere da una giovane associata, Rita Cereda, detta la Scionca, con il chiaro intento di ottenere l’immobile in donazione. E in parte ci riesce anche, se non fosse che quelle due stanze del Carretta ora a Rita farebbero parecchio comodo. Le vorrebbe dare alla madre per il suo laboratorio di sartoria, e alleviarle così il peso della vita grama che fa: vedova e col pensiero di una figlia zoppa, Rita, appunto; una malmaritata, Lirina, che non sa come liberarsi del muratore avvinazzato che ha sposato; e poi Vincenza, bella ma senza prospettive, che seduta sul legno di una barchetta vede riflesso nello specchio del lago il destino che l’attende e al quale non sa sottrarsi.
“Rita Cereda era la seconda figlia di Elena Fulgenzi in Cereda, vedova.
Era nata con una displasia dell’anca che la obbligava a camminare come se i piedi poggiassero su due diversi livelli. Il soprannome le era piovuto in testa mentre frequentava la terza elementare. Durante un rimescolamento dei posti in classe, vecchia abitudine della maestra, il bambino che s’era trovato al fianco di Rita s’era messo a piangere. Richiesto di spiegare la ragione delle lacrime aveva risposto che vicino alla scionca non ci voleva stare.
La maestra era rimasta di stucco.
…
Anche con la madre i dialoghi erano rari e perlopiù spenti. Nei suoi sguardi infatti percepiva un fastidio compassionevole per la sua figura sbilenca e austera, e ciò bastava ad ammutolirla.
Senza contare che Elena Fulgenzi in Cereda aveva un caratterino da prendere con le molle.
Ne sapeva qualcosa anche la prima figlia Lirina, pure lei esclusa dalle confidenze materne da quando, contro ogni parere, s’era maritata («Malmaritata», sottolineava la Fulgenzi) con certo Loreto Damato, muratorucolo tanto avvezzo a maneggiare la cazzuola quanto il bottiglione del vino, che l’aveva portata ad abitare, rovinandola, in una casaccia del rione Pradegiana, povera di luce e umida come un tombino.
Il cuore della vedova non era però asciutto come poteva sembrare.
L’affetto, le speranze, i frutti delle fatiche di sarta a domicilio servivano a far prosperare la terza figlia, Vincenza.
Quando Rita assunse l’incarico di badare al ciabattino, sua madre si stava preparando a tirare la volata di Vincenza verso il traguardo del diploma magistrale.
Ben educata, misurata nei modi e nelle parole. Ma soprattutto bella, Vincenza, come lo era stata la madre in gioventù. Digiuna ancora della maggior parte delle insidie della vita.
E affinché lo restasse il più a lungo possibile, Elena Fulgenzi la teneva d’occhio, non mollava la presa, non perdeva occasione per impartirle lezioni pregne di sospetto e diffidenza verso l’intero genere umano.
Perché sapeva bene quanto si è stupidi quando si è tanto giovani.”
Le recensioni sono molto positive per questo nuovo romanzo di Andrea Vitali, che, pur confermando l’ambientazione, lo stile, il suo elegante umorismo, ci regala personaggi nuovi, con nomi inconsueti, incastrati in un romanzo più articolato dei precedenti, con molte figure di contorno.
Fu il naso fino di Spinetta Buboli a entrare in allarme nella tarda mattinata di martedì 15 gennaio 1963. Giornata di vento, come succedeva da un po’ di tempo, ma vento strano, un mezzo föhn, non di stagione, insomma.
D’altronde passava davanti alla calzoleria, se ancora la si poteva chiamare così, almeno otto volte al giorno: quando andava alla messa del mattino, quando andava a prendere il pane, quando, più tardi, andava a prendere un quartino di vino, rosso, consigliato dal dottore per l’anemia, al Circolo dei lavoratori. Infine al pomeriggio, quando andava al rosario delle quattro.
Tra andare e tornare appunto otto volte.
Ma era il minimo quotidiano.
Sola com’era non perdeva occasione per uscire, soprattutto quando sentiva suonare le note dell’agonia. Le notizie sui morti freschi le facevano più gola del pesce in carpione.
Quella mattina sbaragliò la concorrenza di coloro che aspettavano il proprio turno nella sala d’attesa dell’ambulatorio del dottor Lonati, affermando che si trattava di cosa urgente.
Il Lonati ne riconobbe la voce fessa, da gabbiano irritato. Colse un paio di parole più acute nello stridio del tono: «scusèm» e «grave».
«Cosa c’è?» chiese quando si trovò davanti la Spinetta, seria come un ambasciatore.
«Per me è morto», rispose la donna.
«Morto?» ribatté il Lonati.
«Morto, morto», ripeté la Spinetta toccandosi la punta del naso. «C’è puzza di marcio, di cadavere.»
«Se mi usasse la cortesia di dirmi a chi si riferisce…» sospirò il Lonati.
Il tono non dovette suonare molto convinto alle orecchie della Buboli.
«Certo», rispose lei con un’impennata della voce. «Ma guardi che so quello che dico!»
Perché già al mattino presto, quando era uscita per la messa, le era sembrato di sentire quell’odore, una scuffia di vento gliel’aveva portato nel naso. Però, va be’, era freddo, poteva sbagliare, mica era un cane da caccia. Tornando a casa aveva annusato un po’ di più. Ma, aveva pensato, poteva trattarsi di un gatto morto o di qualche topo, morto anche lui, per via che c’era il lago basso e ne aveva già visto più di uno girellare per la contrada come se niente fosse.
A casa poi, facendo i mestieri, non se n’era più preoccupata.
Ma, dopo!
Quando era uscita a prendere il pane, sia all’andata sia al ritorno!
Che odore!
Non si poteva sbagliare.
Di marcio appunto, di cadavere!
S’era fermata un momento, giusto per capire se qualcun altro lì in giro l’avesse sentito.
Magari il formagiàt che aveva la bottega due passi in là o quel disgraziato dell’Enea Palèta che abitava lì di fronte e dormiva con la finestra aperta anche se era inverno.
Avrebbe potuto chiedere a qualcuno, lo sapeva, ma…
«No.»
Nossignore, mica voleva che la prendessero per esaltata o per ficcanaso o che le dessero del menavia.
Quindi aveva deciso di andarlo a dire a una delle poche persone di cui si fidava lì in paese, perché per lei era proprio odore di morto, di cadavere.
«D’accordo», si arrese il dottor Lonati.
Ma era ancora in attesa di sapere il nome e il cognome del fortunato… cioè, insomma, del morto.
«Ossignur, ma non gliel’ho mica detto?» sbottò la Spinetta, una mano sulla bocca.
«Se glielo chiedo…»
«Mi scusi, faccio subito.»
«Gentile…» ridacchiò il Lonati.
Poi apprese che si trattava dell’Annibale Carretta.
«Lo sa chi è, no?»