L’Arminuta è un romanzo di Donatella Di Pietrantonio, pubblicato nel 2017 da Einaudi, vincitore del Premio Campiello. La storia di un doppio abbandono, che narra di legami, di maternità, di egoismo, di responsabilità e cura di chi diciamo di amare.
“È suonata la campanella. Lungo il corridoio gli altri hanno mantenuto una distanza che mi circoscriveva come estranea. Qualcuno aveva attaccato al banco dove stavo per sedermi un’etichetta invisibile con il soprannome che in paese usavano dopo il mio rientro in famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Non conoscevo quasi nessuno ancora, ma loro ne sapevano piú di me sul mio conto, avevano sentito le chiacchiere degli adulti.”
Ambientata negli anni ’70 in Abruzzo, è la storia di una ragazzina di tredici anni che, senza sapere il perché, un giorno viene rispedita dai suoi veri genitori, di cui fino a quel momento ignorava l’esistenza. La ragazzina si ritrova catapultata non solo in una famiglia sconosciuta, con gente sconosciuta, ma anche in una realtà totalmente diversa, dalla città al paese e soprattutto dall’agiatezza alla povertà. Orfana di due genitori ancora in vita possiamo solo immaginare il tormento emozionale di tale situazione: come l’abbandono, la solitudine, l’inadeguatezza.
Ci sono due segreti che accompagnano tutto il libro: perché è stata data in adozione e perché è stata restituita.
“A tredici anni non conoscevo piú l’altra mia madre.
Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa. La porta non voleva aprirsi, qualcuno dall’interno la scuoteva senza parole e armeggiava con la serratura. Ho guardato un ragno dimenarsi nel vuoto, appeso all’estremità del suo filo.
Dopo lo scatto metallico è comparsa una bambina con le trecce allentate, vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista. Ha scostato l’anta per farmi entrare, tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora, più che da adulte.”
La trama si sviluppa con una narrazione intensa e toccante, affrontando temi complessi legati all’identità, alla famiglia e all’accettazione. Il linguaggio utilizzato dall’autrice è potente e coinvolgente, creando una connessione emotiva con i personaggi e rendendo il lettore partecipe delle loro lotte interiori.
Uno degli aspetti più notevoli del romanzo è la capacità di Di Pietrantonio di esplorare le dinamiche familiari e le relazioni umane in modo autentico e realistico. La protagonista, pur essendo giovane, affronta una serie di sfide e scoperte che mettono in discussione le sue convinzioni e la sua identità.
L’Arminuta, in dialetto abruzzese significa “la ritornata”, ed è la sua voce quella narrante. La scrittura è asciutta, precisa e intensa, i capitoli sono brevi, come piace a me, e tutto si snoda senza intoppi. La storia sembra troppo assurda per entrarci dentro completamente, per farti diventare il personaggio, però nello stesso tempo lo sguardo del lettore raccoglie tutte le emozioni e le molte riflessioni: come il rapporto madre-figlio, cosa significa la parola maternità, ed anche sulla sorellanza, mi chiedo se non avessero avuto legami genetici avrebbe avuto lo stesso rapporto con la sorella Adriana?
E poi la scrittura fa la magia, un libro potente, il migliore che ho letto nel 2021 e lo consiglio a chi cerca una lettura coinvolgente e riflessiva. A breve troverete anche la recensione del seguito del romanzo pubblicato nel 2020: Borgo Sud.
“Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo piú da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.”
Dal romanzo è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale, realizzato e prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la regia di Lucrezia Guidone.
Il 21 ottobre 2021 è uscito al cinema l’omonimo film diretto da Giuseppe Bonito, con Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis, Vanessa Scalera, Fabrizio Ferracane, Andrea Fuorto, Elena Lietti.
La donna che mi aveva concepita non si è alzata dalla sedia. Il bambino che teneva in braccio si mordeva il pollice da un lato della bocca, dove forse voleva spuntargli un dente. Tutti e due mi guardavano e lui ha interrotto il suo verso monotono. Non sapevo di avere un fratello cosí piccolo.
– Sei arrivata, – ha detto lei. – Posala, la roba.
Ho solo abbassato gli occhi sull’odore di scarpe che usciva dalla borsa se la muovevo appena. Dalla stanza in fondo, con la porta accostata, proveniva un russare teso e sonoro. Il bambino ha ripreso la lagna e si è rivolto verso il seno, colando saliva sui fiori sudati del cotone stinto.
– Tu non chiudi? – ha chiesto secca la madre alla ragazzina che era rimasta immobile.
– Non salgono quelli che l’hanno portata? – ha obiettato lei indicandomi con il mento a punta.
Lo zio, cosí dovevo imparare a chiamarlo, è entrato proprio allora, in affanno dopo le scale. Nella calura del pomeriggio estivo teneva con due dita la gruccia di un cappotto nuovo, della mia taglia.
– Tua moglie non è venuta? – gli ha domandato la mia prima madre alzando il tono per coprire il lamento che aumentava tra le sue braccia.
– Non si muove dal letto, – ha risposto con uno scarto della testa. – Ieri sono uscito io a comprare qualcosa, anche per l’inverno, – e le ha mostrato la targhetta con la marca del mio cappotto.
Mi sono spostata verso la finestra aperta e ho deposto i bagagli a terra. In lontananza un frastuono numeroso, come sassi scaricati da un camion.
La padrona di casa ha deciso di offrire il caffè all’ospite, cosí l’odore avrebbe pure svegliato il marito, ha detto. È passata dalla sala da pranzo spoglia alla cucina, dopo aver messo il bimbo a piangere nel box. Lui ha cercato di tirarsi su aggrappandosi alla rete, in corrispondenza di un buco riparato grossolanamente con un intreccio di spago. Quando mi sono avvicinata, ha urlato di piú, stizzito. La sorella di tutti i giorni l’ha tolto con uno sforzo da lí dentro e lo ha lasciato sulle mattonelle di graniglia. Si è mosso gattoni, verso le voci in cucina. Lo sguardo scuro di lei si è spostato dal fratello a me, restando basso. Ha arroventato la fibbia dorata delle scarpe nuove, è salito lungo le pieghe blu dell’abito, ancora rigide di fabbrica. Alle sue spalle un moscone volava a mezz’aria sbattendo di tanto in tanto contro il muro, in cerca di un vuoto per uscire.
– Pure ’sto vestito te l’ha pigliato quello là? – ha chiesto piano.
– Me l’ha preso ieri proprio per tornare qui.
– Ma chi ti è? – si è incuriosita.
– Uno zio alla lontana. Sono stata con lui e sua moglie fino a oggi.
– Allora la mamma tua qual è? – ha domandato scoraggiata.
– Ne ho due. Una è tua madre.
– Qualche volta ne parlava, di una sorella piú grande, ma io non ci credo tanto a essa.
Di colpo mi ha stretto la manica del vestito tra le dita avide.
– Questo tra poco non ti entra piú. L’anno che viene lo puoi passare a me, stai attenta che non me lo rovini.
Il padre è uscito scalzo dalla camera da letto, sbadigliando. Si è presentato a torso nudo. Mi ha vista, mentre seguiva l’aroma del caffè.
– Sei arrivata, – ha detto, come sua moglie.