Indaga, detective è una raccolta di racconti gialli, con protagonisti gli investigatori seriali più amati del momento che indagano in una sorta di narrazione corale in cui le storie si intrecciano esplorando i lati e i luoghi più oscuri della nostra società. Una mappa dell’Italia criminale e non solo. La raccolta è stata pubblicata il 25 gennaio 2022, da Piemme, nata per aiutare la Croce Rossa Italiana, alla quale andranno tutti i proventi.
“Questa antologia ha una storia e una genesi ben precisa, talmente precisa che so esattamente il giorno e l’ora in cui è stata concepita: il 18 aprile del 2021. Era mezzogiorno.
Il luogo del delitto? Suzzara, in provincia di Mantova …
Si festeggiava la quindicesima edizione del festival ma senza abbracci o strette di mano perché ognuno era a casa propria in quanto la manifestazione si svolgeva interamente online.
… È stato bello comunque, certo, ma tutti sentivamo che mancava qualcosa: mancava il calore del pubblico, la vicinanza dei lettori, le dediche, le foto, l’empatia dei momenti conviviali, i brindisi. Così, ci siamo ripromessi di fare qualcosa per quando si sarebbe potuto ripartire e di farlo lasciando un segno, cercando di aiutare chi nell’orrore della pandemia aveva alleviato le sofferenze di tante persone e abbiamo scelto per il nostro scopo, la Croce Rossa Italiana.
… Non solo, l’idea nata in quel famoso incontro del 18 aprile, era di mettere al servizio dell’operazione solidale i nostri personaggi migliori, quelli più amati dai lettori, vale a dire i detective seriali, protagonisti dei nostri romanzi.
Sono bastati pochi mesi e il risultato, che mi riempie di orgoglio, l’hai davanti a te: non solo gli scrittori noir hanno dimostrato di avere un cuore buono ma anche di saper accettare le sfide senza paura e di uscirne vincitori.”
Dalla Postfazione di Paolo Roversi
Si parte con un cammeo nella Napoli degli anni Trenta del commissario Ricciardi di Maurizio de Giovanni, che ci regala una prefazione originale: una lettera scritta dal commissario Luigi Alfredo Ricciardi al lettore.
“Caro signore, che strano scrivervi questa lettera.
Come sapete, siamo abituati a incontrarci in tutt’altra maniera: la modalità tipica tra noi è per me comparirvi al fianco, le mani affondate nelle tasche del mio soprabito così fuori moda nel vostro tempo, e cominciare a sussurrarvi le mie storie, così, senza nemmeno un preambolo o un saluto. Anzi, l’occasione mi è gradita per scusarmi per questo mio comportamento: come sapete, io sono di buoni natali e se mio padre o la mia povera mamma sapessero che ho l’abitudine di invadere la vostra vita senza chiedervi permesso, probabilmente mi rimprovererebbero. Sono cose della vostra epoca, non della mia.”.
Si prosegue immergendosi in una Milano che ha molte facce con “Il codice Gratta e Vinci” di Sandrone Dazieri, che omaggia Andrea G. Pinketts e il suo Lazzaro Santandrea. Dazieri ci regala un momento di malinconia quando immagina un giorno di poter tornare a raccontare e ascoltare le storie anche di altri due grandi scrittori milanesi scomparsi, Sergio Altieri e Stefano di Marino.
“Le sfighe arrivano trasportate da un carrello ferroviario. Ci sono a bordo due vecchi con la salopette che spingono la sbarra per far muovere le ruote e intanto scelgono a chi andare nella schiena. Io ho imparato a sentirli a distanza, perché oltre al senso della frase ho il senso del ragno, o il senso della rogna, e so come scansarli. Devo solo stare seduto in un bar con una birra schiumosa e una tipa bramosa, senza alzarmi fino a quando il cigolio che fanno i due manovratori si è allontanato. Il carico di letale letame allieterà qualcun altro, e mi ritroverò tra i superstiti che piangono le vittime, che tra le due è la condizione migliore. A volte, però, il cigolio delle ruote non si riesce a sentire, perché qualcuno urla troppo.”
Si resta a Milano con “Omicidio a domicilio” di Paolo Roversi e il giornalista hacker Enrico Radeschi, che nel primo giorno di lockdown, abbandonato il giallone in un garage e col la chiusura del birrificio di Lambrate, si ritrova un cadavere direttamente nell’androne di casa.
“Al Birrificio di Lambrate c’era aria di smobilitazione e, tra gli sgabelli e il bancone in legno, galleggiava una gran tristezza.
Enrico Radeschi si era presentato nel locale, in via Adelchi, all’ora di pranzo per un panino e una Domm, consapevole che quella sarebbe stata l’ultima birra artigianale che avrebbe bevuto per parecchio tempo. L’atmosfera era sottotono, tra la rassegnazione e lo scoramento per quello che sarebbe potuto accadere. Radeschi immaginava fosse stato esattamente così il giorno prima dell’entrata in vigore del proibizionismo a Chicago: facce lunghe, poca voglia di chiacchierare e i boccali che si svuotavano con una lentezza esasperante.
Centellinò il suo bicchiere fino all’ultima goccia dopodiché uscì depresso e salì in sella al Giallone, la sua Vespa gialla del 1974 ridipinta a bomboletta. Aveva il magone e un senso di smarrimento addosso. Guidò piano, godendosi il viaggio, scrutando la città che sembrava rallentata, provata per i tanti casi di Covid19. Milano stava per fermarsi così come il resto d’Italia.”
Ci si ferma ancora a Milano con “Money Transfer” di Gianluca Ferraris e l”avvocato penalista Lorenzo Ligas, che con la sua visione particolare della giustizia, tra un bicchiere e l’altro, dovrà confrontarsi con un ladro, un po’ autistico che è stato accusato per errore.
“Esiste un limbo orario durante il quale ogni città, persino Milano, somiglia alle sue campagne. La luna è pallida, quasi trasparente, appesa a un cielo ancora bianco e freddo. Nell’aria viaggiano rumori soffusi e nessuna parola, al massimo il fischiettare dei primi tramvieri, e le strade sono pregne di umidità e odore di pane.
Quel limbo, più o meno sospeso tra le cinque e le sei del mattino, era il preferito di Felicitas. Ogni giorno, prima di prepararsi per il turno di pulizie che l’attendeva in centro, la donna usciva sul suo minuscolo balcone per godersi pochi liberatori istanti di silenzio e aria frizzante. Con la tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra, scrutava da lontano le lamiere della stazione di Rogoredo stagliarsi oltre le facciate color mattone di case popolari che sembravano fatte con i Lego. Oltre la selva di antenne paraboliche, i cassonetti della Caritas emaciati, le ringhiere arrugginite, le maglie da calcio della nazionale tunisina stese ad asciugare da madri che ancora figliavano sopra la media Istat.
Felicitas era l’unica abitante del palazzone affacciata a quell’ora, dunque fu anche l’unica – o almeno di gran lunga la prima – a vedere la ragazza, giù in strada.”
Si lascia Milano e si va a sul lago di Como, precisamente a Colico, con “Cenerentola rumena” di Rosa Teruzzi e la fioraia-detective Libera Cairati, la Miss Marple del Giambellino. Libera insieme all’eccentrica madre Iole sono in vacanza. Mentre la figlia vuole dedicarsi alla ristrutturazione di un rudere, l’inarrestabile Iole non è dello stesso avviso, così le due si ritrovano alla ricerca di una donna scomparsa.
“«L’ho trovata, l’ho trovata. Su, su, corriamo a beccarci la ricompensa.»
Emettendo inquietanti squittii di esultanza, Iole attraversò come un siluro il portico del rustico e, accompagnata dal brontolio poco amichevole di Idra che dormiva lì sotto, rintanata dentro la sua cuccia, piombò in cucina dove Libera stava affettando le zucchine per lo sformato.
L’eccitazione di cui era visibilmente preda non le impedì di passare in rassegna le verdure e le fette di scamorza già allineate, accanto alla pirofila, sul vecchio tavolo di legno valtellinese. «Questa volta, abbonda un po’ con le patate rosse e il pangrattato» intimò alla figlia: «Non l’ha mica stabilito il giudice che in questa casa si debba crepare di fame e io, almeno io, non ho certo bisogno di mettermi a dieta».
In effetti, lei non ne aveva, sospirò Libera, confrontando mentalmente il proprio fisico morbido da Venere preraffaellita con quello longilineo della madre, ancora flessibile a quasi settant’anni per l’esercizio quotidiano dello yoga («e anche per altri tipi di esercizi più goduriosi» avrebbe aggiunto sbarazzina lei).
Iole si sedette al tavolo e allungò una mano verso il formaggio, come fosse già dimentica della sua sbandierata scoperta.
«Che cos’è che avresti trovato?» le chiese comunque Libera.
Era abituata ai facili entusiasmi della madre che si spegnevano alla stessa velocità con cui si erano accesi, ma sapeva anche bene in che tipo di guai fosse in grado di ficcarsi quando si gettava a capofitto in un’impresa. Meglio, molto meglio, sorvegliarla da vicino.”
Lasciamo la Lombardia e andiamo a Torino con “Nel girone più in basso” di Enrico Pandiani e la volontaria Zara Bosdaves, impegnata con la sua squadra nell’assistenza notturna ai senzatetto, alla ricerca di una ragazza nigeriana scomparsa.
“Zara Bosdaves si guardò attorno con l’aria di chi non ha mai avuto occasione di trovarsi nel bel mezzo di un girone infernale. In quel preciso momento la piazza di Porta Palazzo, con la spazzatura, i banchi a metà smontati e un’umanità distrutta dalla stanchezza, non le faceva venire in mente altro. L’attività frenetica, quasi premeditata, sulla quale la notte sembrava stendere un velo d’ombra, era l’immagine stessa della fatica.
Come ogni sabato sera, il più grande mercato all’aperto d’Europa chiudeva i battenti, un lavoro lungo e massacrante che, oltre agli ambulanti, impiegava una moltitudine di disperati che aveva atteso tutto il giorno quel momento per poter raggranellare quattro soldi. In mezzo a grida, ordini e risate, il movimento frenetico sembrava espellere un traffico di pesanti carretti, la maggior parte spinti a mano, diretti verso i locali del sottosuolo detti Ghiacciaie, dove le merci venivano immagazzinate fino al giorno seguente.
Sul selciato ormai quasi sgombro, piccoli bulldozer spingevano i rifiuti attraverso la piazza, accumulandoli in mucchi che gli addetti caricavano sui camion della spazzatura. Il tutto sotto lo sguardo avvilito di chi tra le cose gettate cercava qualcosa di ancora commestibile, e nella quasi totale indifferenza delle persone più o meno eleganti che arrivavano da quelle parti per cenare nei ristoranti alla moda o per l’aperitivo.”
Poi si va a Parma con “L’ultima notte” di Daniela Grandi e la bella marescialla dei carabinieri Nina Mastrantonio, che è rimasta sola a gestire il lavoro, visto che mancano poche ore dall’inizio del lockdown, cerca di risolvere due casi di omicidio.
“La tentazione, fortissima, era di chiudere gli occhi e tornare a dormire. Per quanto tempo? Nessuno sembrava capace di dare una risposta. Nina sperava che in poco tempo sarebbero usciti fuori da quel sogno angoscioso. Ficcò la testa sotto il cuscino. Il suono acuto di un’ambulanza la riportò in terra e la convinse ad alzarsi. Mentre preparava il caffè, aggiungendo la solita scorzetta di zenzero all’acqua della moka, accese la radio: il virus aveva fagocitato ogni altra notizia. Per quanto tempo ancora? Mentre indossava la divisa la marescialla Nina Mastrantonio disse a se stessa che dovevano resistere giusto qualche mese, poi avrebbero ricominciato”
Da Parma ci spostiamo a Ferrara con “La bicicletta di De Nittis” di Paolo Regina e il capitano della Guardia di Finanza Gaetano De Nittis, un pugliese trapiantato a Ferrara, con la passione per la buona musica, il buon cibo e le donne, che adesso è impegnato nella ricerca della sua Bianchi, la mitica bicicletta, scomparsa con dei documenti riservati nelle tasche. Quando ritrova la Bianchi, scopre anche qualcos’altro.
“Un solitario raggio di sole si era insinuato tra le decorazioni in ferro battuto della vetrata liberty e, scomponendosi, aveva proiettato per qualche secondo i colori dell’iride sul caffè del capitano Gaetano De Nittis.
Con il finanziere, al solito tavolino del Tugnin, c’era Gianni Bonfatti, l’amico giornalista della «Gazzetta Ferrarese», sempre bene informato su vicende, persone e pettegolezzi della città.
Era il primo sabato di febbraio di un inverno cupo e carico di angoscia.
Quella mattina, nel tepore del chiosco a ridosso del castello estense, i due amici stavano gustando in silenzio una generosa porzione della crostata di visciole preparata dalla Nives, la bella ed esuberante proprietaria del Tugnin.
«Ma che musi lunghi, mi sembrate due beccamorti!» L’osservazione della ragazza riuscì a provocare solo un sorriso stiracchiato sui loro volti, in genere propensi alle battute, anche un po’ grevi.
«Ma non la senti questa cappa di tristezza che ci avvolge, Nives? Ho presagi tristi per questo 2020.» Il giornalista inclinò la testa e la guardò languido. Quando faceva così era in vena di filosofeggiare sui massimi sistemi. «Viviamo tempi bui, cara la mia ragazzuola, tempi bui! La menzogna governa il mondo, gli ignoranti governano noi e l’uomo è lupo dell’uomo.”
Andiamo fino a Genova che profuma di mare, con “Umbre de muri” di Antonio Paolacci e Paola Ronco, dove il vice questore aggiunto Paolo Nigra deve fare i conti con le paure dell’occhialuto Salvatore Consoli, agente di commercio e cugino del questore, che è stato minacciato di morte durante una seduta spiritica.
“«Non mi crederete mai» era la premessa peggiore che Nigra potesse sentire. La giornata era già cominciata male, con una sventagliata di tramontana mista a pioggia orizzontale, i notiziari che parlavano di fine del mondo e i lavori straordinari di ristrutturazione in questura, un trionfo di trapani, martellate e bestemmie di operai. Poi, appena arrivato alla sua scrivania, il vicequestore aggiunto Paolo Nigra era stato accolto da una telefonata del questore.
«Mi faccia questo favore, sia gentile» erano state le parole che l’avevano intrappolato. «Io non ho proprio il tempo e, lei capisce, non posso mica mandarlo da un agente semplice. È mio cugino.»
Ed ecco la tombola: il tempaccio, il nuovo spaventoso virus, gli operai in ufficio, e un pedante parente del questore che non poteva certo andare da un agente semplice come un cittadino normale, e che per giunta esordiva con un promettente: «Non mi crederete mai».”
Si fa un salto nel tempo fino alla Firenze ottocentesca con “Il pescatore verde” di Leonardo Gori e il suo Carlo Lorenzini, detto Collodi che, insieme all’amico Jarro indaga sulla morte di un ragazzino ripescato nell’Arno nella rete di un vecchio pescatore, insieme a un burattino di legno. Dove fa capolino anche Pellegrino Artusi, che passa le ricette a cui non si può resistere.
“L’alba disegnava all’orizzonte una linea sottile color indaco, che svaniva subito nel nero della notte. Sulla spalletta del lungarno, i lampioni a gas erano tutti spenti. Nessun passante, nessuna carrozza. Il fiume giaceva in una fossa profonda, un taglio tra le due parti di Firenze, e il greto era una larga zona franca e quasi selvaggia, invisibile dalle finestre dei palazzi.
Il pescatore di frodo si nascondeva ogni notte fra la verzura spinosa delle ampie sponde, senza neppure il conforto di un lume. Era un uomo anziano, solo e reietto, ma grande e grosso come un gigante, e ancora forte. Parlava tra sé, borbottando maledizioni e scontento. Ed era così sudicio che la gabbanella verde gli stava incollata sulla pelle, dura come il cuoio.
La sua rete era immersa nell’acqua. Qualche pesce vi incappava sempre, gli bastava solo pazientare e poi l’avrebbe mangiato subito, la fame lo stringeva allo stomaco. Andò sotto il muraglione dell’argine, dove attendevano la padella, un poco di lardo e il cartoccio della farina. Mentre cercava di accendere le braci con l’acciarino, si girò un attimo verso la sponda. Aveva intravisto due ombre che si rincorrevano”.
Si resta nel passato, ma a Siena con “Micromega” di Valerio Varesi e il commissario Soneri che, leggendo una email che sa di confessione, ripercorre e svela i segreti di un vecchio caso, ormai relegato negli archivi della Cassazione, strettamente legato alla massoneria.
“«Caro Soneri, sono il colonnello Castrucci. Ci siamo conosciuti qualche anno fa a Parma, quando lei gentilmente mi ha fornito informazioni su quel tal Bosetti invischiato in una losca faccenda di massoneria. Allora mi fece parecchie domande di fronte alle quali io fui molto reticente. Da tempo sono in pensione e quella faccenda è ormai sepolta negli archivi della Cassazione. Però vorrei affidare a lei la versione esatta di come andò. La prenda con beneficio d’inventario. Per ciò che mi riguarda ritengo sia un atto dovuto per non seppellire del tutto la verità. Sento anche di liberarmi di una colpa per aver lasciato correre. La ragion di stato… Anche lei fa parte di un apparato governato dall’alto, dalla politica, e per questo sono sicuro che mi capirà. Quel giorno registrammo tutto. Villa Carlotta era zeppa di cimici.»
Seduto in un bar del centro, Soneri cominciò a leggere la mail.”
Dai colli Senesi raggiungiamo Pescara con “Il mare a settembre” di Romano De Marco e il commissario Laura Damiani che deve risolvere il mistero del cadavere di una diciassettenne ritrovato il 27 settembre sulla spiaggia, dopo una festa di fine estate.
“Il mare di fine settembre è un inganno.
Ti ammalia come lo sguardo di una bella donna, che nasconde un coltello dalla lama affilata dietro alla schiena.
Ti lusinga con promesse che non può mantenere e sa che alla fine sarai tu a pagare il conto.
Quel mare ingannevole è la prova che la felicità è solo questione di attimi, un’illusione su cui non puoi fare affidamento.
È lì a ricordarti che le cose cambiano in fretta e da un momento all’altro può accadere qualcosa di brutto.
Come quello che è accaduto oggi.
«Dottoressa… Dottoressa Damiani!»
Leo mi tocca una spalla e riemergo da una specie di oblio.
«Mi perdoni, ma la stavo chiamando da un po’ e…»
«Scusami tu, ero distratta. Ha finito?»
«Sì, il dottor Orlando l’aspetta. Dice che ha fretta.»
Percorriamo a ritroso la passerella, un sentiero di piastre in cemento bianche e azzurre, che dallo stabilimento porta fin quasi alla riva. Da qualche minuto me ne stavo a guardare l’orizzonte come ipnotizzata, con le mani sprofondate nel mio trench verde.”
L’ultimo racconto ci porta fuori dall’Italia e lontano nel tempo, andiamo nella misteriosa Londra con “Il diavolo fa solo le pentole” di Luca Crovi e l’investigatore per eccellenza Sherlock Holmes che coinvolgere in una stravagante avventura il suo peggior nemico: il professor Moriarty.
“Quando entrai nella stanza mi accorsi che il mio amico aveva lasciato un giornale abbandonato sul divano. Era una copia spiegazzata dello «Strand Magazine». Mi cadde l’occhio sul titolo del racconto che vi era pubblicato: Sherlock Holmes e la vendetta della mummia. Quella visione mi nauseò. Per l’ennesima volta l’editore aveva dato spazio alle fandonie dello scrittore Arthur Conan Doyle. Io e Holmes avevamo cercato di spiegare più volte agli editori dello «Strand Magazine» come sarebbe stato meglio pubblicare di volta in volta i testi dei miei diari nei quali, in maniera certosina, appuntavo tutto quello che accadeva nella nostra casa al 221B di Baker Street. Ma la loro risposta era sempre stata negativa. Sostenevano che uno stile ironico come il mio avrebbe disgustato i lettori e soprattutto che i casi reali di cui si era occupato Mr. Holmes non erano così interessanti da meritare la pubblicazione, meglio quelli immaginati da Conan Doyle, che tanta popolarità avevano ottenuto fra i lettori.”
Le recensioni sono molto positive per questa raccolta di brevi storie, che diventa quasi un libro da collezione per gli amanti del giallo, per i fan dei vari investigatori, e in più si fa qualcosa di buono acquistandolo.
Voglio condividere quest’omaggio a Sergio Altieri che mi ha commosso:
“Pensai che mi sarei dovuto portare dietro qualcuno grande e grosso per coprirmi le spalle. Qualcuno come Sergione, per esempio, che quando lo incontravi pensavi subito che campasse di malaffare. Era così alto che potevo specchiarmi nella fibbia della sua cintura, e aveva i muscoli di Hulk. Ma era uno scrittore, non un killer, pestava solo i tasti del computer. La sua violenza era solo quella epica dei suoi romanzi epici: l’Iliade con le pistole, l’Odissea con le bombe a mano, I Promessi Sposi con ninja e zombie.
Uccideva i suoi personaggi come neanche Dio nel vecchio Testamento, ma nella vita non alzava neanche la voce, figurarsi le mani. Se te lo portavi dietro potevi essere sicuro che nessuno si sarebbe avvicinato con cattive intenzioni, ma era un buono. Ed è morto, come muoiono i buoni, silenziosamente, a casa sua. Il carrello lo aveva travolto, i vecchietti lo avevano schiacciato sopra il divano di casa. Sergione però non aveva lasciato del tutto questo mondo. Si era trasformato in un vuoto grande quanto era lui, e se sei attento puoi vederlo ancora camminare nelle vie di Milano come un mancamento a forma di uomo, una vertigine di niente. Lo incontro spesso quando vado a dormire all’alba, perché lui si alzava a quell’ora. «Ehi, my man» mi dice sempre con il suo accento angloamericano, e mi batte il cinque. «Come va?». E io non so mai cosa rispondergli, se non che prima o poi ci siederemo insieme da qualche parte e avremo l’eternità per raccontarci storie, insieme al Professionista e a tutti gli amici che adesso ridono vedendoci sopravvivere a noi stessi.
Ecco, mentre salivo le scale al buio fino al terzo piano, Sergione mi mancò ancora di più.”