La foresta del male è un thriller di James Patterson, con la collaborazione dello scrittore James O. Born, pubblicato l’8 novembre 2022, in Italia, da Longanesi, tradotto da Annamaria Biavasco e Valentina Guani.
Decimo capitolo della serie con protagonista il detective Michael Bennet, che questa volta, dovrà fare i conti i sensi di colpa per non essere stato un buon padre e neanche una vacanza riesce a dar pace alla sua famiglia.
“Non mi interessava sapere perché aveva fatto quel che aveva fatto. Per sfida? Per soldi? Chissenefrega. Il mio stipendio era quello che era, ma non ci mancava niente. Mi chiedevo se Brian fosse finito su una cattiva strada perché aveva perso la mamma troppo presto. A me Maeve mancava ancora moltissimo, nonostante mi fossi rifatto una vita e avessi un’altra donna accanto. Avevo un buon dialogo con i miei figli, ma c’erano tante cose che non sapevo.”
Trama di “La foresta del male”
Gli ultimi tempi sono stati duri per la famiglia Bennett: dopo aver scoperto che il figlio Brian spacciava droga, il detective Michael Bennett è riuscito ad assicurare alla giustizia i criminali che gestivano il traffico di stupefacenti.
Qualcosa tuttavia è andato storto e Bennett è stato sospeso dal servizio per poi essere reintegrato. Con questa macchia nella carriera, Michael decide di caricare le valigie in auto e, insieme a tutti i familiari, staccare la spina. L’idea è trascorrere l’estate nel Maine ma, una volta a destinazione, il detective scopre molto presto che la tranquillità promessa dai dépliant turistici è solo un sogno.
La comunità apparentemente perfetta che vive immersa nei boschi nasconde infatti un mondo oscuro. Due ragazzi del posto spariscono e l’intrico di alberi e silenzi rivela una macabra scena. La polizia locale decide di consultare Bennett, che vede nell’indagine l’occasione per riscattarsi e riabilitare il proprio nome. Ma il caso si rivela più complesso del previsto: nessuno ha voglia di parlare con il detective arrivato dalle rumorose strade di Manhattan.
Mentre Bennett brancola nel buio, tra la gente chiusa in una corazza di diffidenza, una strana ragazza che sembra dimenticata da tutti diventa il suo improbabile alleato. Chi è il responsabile di una violenza così efferata? E, soprattutto, quali altri segreti custodisce la foresta del male?
“Ci rimettemmo in viaggio nel tardo pomeriggio e imboccammo la I-90 in direzione est. Con tre enormi valigie sul portapacchi, eravamo un’allegra brigata in vacanza.
Consultai i miei compagni di viaggio e la maggioranza deliberò di procedere direttamente alla volta della nostra casa di villeggiatura nel Maine senza altre tappe intermedie.
Mary Catherine colse la mia espressione sgomenta di fronte alla prospettiva di guidare per dodici ore filate. Si chinò verso di me e disse: «Ci diamo il cambio. Ci divertiremo».
L’avventura era cominciata.”
Incipit di “La foresta del male”
PARTE PRIMA
1Abbassai gli occhi sulla canna della mia pistola d’ordinanza, una Glock 19. Avevo di fronte Lori Armstrong, una collega della Omicidi del Quarantatreesimo distretto, alta e bionda. Hector Nunez, che si occupava di persone scomparse e aveva il fisico da giocatore di football americano, stava per bussare alla porta di un appartamento.
Eravamo su un pianerottolo buio e maleodorante al terzo piano di un condominio vicino a Castle Hill Avenue e al viadotto dell’I-278. Ogni volta che passava un tir, si sentivano tremare le pareti.
Stavamo per arrestare un uomo. Era un’operazione cui tenevo molto e avevo bisogno di portarla a compimento sia per soddisfare la mia sete di giustizia sia per distrarmi da tristi pensieri. Molti compensano lo stress del lavoro in polizia rifugiandosi nella vita privata, ma per me funziona anche il contrario e in quel periodo il lavoro mi permetteva di prendere le distanze dai problemi a casa per riuscire a svolgere al meglio i miei compiti di capofamiglia. Dovevo cercare di pensare il meno possibile a mio figlio Brian.
L’uomo che stavamo per arrestare si chiamava Laszlo Montez e campava spacciando. Lo ritenevamo responsabile del duplice omicidio avvenuto in Jackie Robinson Park all’altezza di 153rd Street, nei pressi della Bethany Baptist Church, dove un altro spacciatore era stato accoltellato insieme con la sua compagna. L’assassino li aveva colpiti alle spalle e aveva infierito sadicamente sul corpo della donna. Un omicidio cruento e insensato, insomma. Ma noi eravamo vicini ad arrestare il colpevole.
Hector mi lanciò un’occhiata e io risposi con un cenno di assenso. Lui bussò, piano, per non spaventare il nostro uomo.
Una voce all’interno dell’appartamento chiese: «¿Qién es?» Come tutti i poliziotti di New York che si rispettino, parlavo un minimo di spagnolo e non ebbi bisogno di traduzione.
«Sono io. Apri» rispose Hector.
Silenzio: evidentemente, Montez aveva capito tutto.
«Policía: abre la puerta» disse Hector. E poi aggiunse, in inglese: «Subito».
Il mio capo era nel vicolo dietro il palazzo, nel caso Montez avesse provato a scappare dalla vetusta scala antincendio.
«Forza, Laz, non farti pregare: apri» urlò Hector. Aspettò cinque secondi e sferrò un calcio contro la porta, sfondandola. I pezzi caddero sul parquet e un gatto schizzò via per andare a rifugiarsi su un divano malconcio.
Corsi dentro con la pistola in pugno, seguito da Lori. Perlustrai con lo sguardo l’appartamento, che era minuscolo: consisteva in una camera da letto e un bagno. La finestra era spalancata e mi sfuggì un’imprecazione. Uscii sulla scala antincendio, cercando di rimanere il più possibile rasente il muro. Chi soffre di vertigini non dovrebbe avventurarsi in certi posti, ma non avevo scelta: Montez era già sceso al secondo piano e stava per arrivare al primo. Lo seguii, mentre Lori avvertiva il sergente appostato nel vicolo.
Montez era giovane e agilissimo. Io avevo qualche anno di più e l’agilità non era mai stata il mio forte. Quando mi vide, reagì in maniera inaspettata: spaccò i vetri di una finestra e si infilò nell’appartamento. Subito dopo sentii gridare. Lo seguii all’interno dell’abitazione.
Una donna obesa con una specie di cuffia da doccia sulla testa gridava in spagnolo mentre Montez, vicino alla porta d’ingresso, teneva stretta a sé una ragazza puntandole un coltello alla gola. Aveva lunghi capelli neri e tremava come un cane bagnato a gennaio.
«State indietro o la ammazzo» disse Montez. Mosse la lama e sul collo della ragazza comparve un rivolo di sangue, che scese a macchiarle la camicetta bianca. Lei lanciò un urlo.
Avevo Montez sotto tiro, il volto al centro del mirino. Arretrò verso la porta. La donna nell’angolo gridò. Una goccia di sudore mi cadde nell’occhio sinistro. Incominciai a contare fra un respiro e l’altro, il dito sul grilletto. Montez nascondeva la testa dietro quella della ragazza.
A un certo punto la porta si spalancò e Lori e Hector entrarono nella stanza con le armi spianate. Montez si voltò verso di loro e, con voce rotta, gridò: «Andate via o le taglio la gola!»
Appena mi girò le spalle, entrai in azione. Aveva preso in ostaggio una minorenne, quindici anni a dir tanto. Ero furibondo.
Riposi la pistola nella fondina, mi avvicinai rapidamente e, proteggendo il collo della ragazzina con la sinistra, con la destra torsi il braccio a Montez, bloccandolo. Non feci bene i calcoli e, nel togliergli il coltello, mi procurai un brutto taglio sul palmo della mano.
Lori afferrò la ragazzina e la portò al sicuro.
A quel punto restavamo io e Montez. Mi voltai per cercare il coltello e rimasi scioccato nel rendermi conto che mi si era conficcato nella mano. Merda!
Gli sferrai un pugno e lo vidi perdere l’equilibrio. Estrassi la lama dalla ferita e, senza lasciargli il tempo di rialzarsi, gli diedi una ginocchiata in faccia. Mi gettai sopra di lui con i miei quasi cento chili di peso e incominciai a menare pugni e gomitate. C’era sangue dappertutto: mio e suo. Avevo bisogno di sfogarmi. Era terapeutico. In fondo, sono un essere umano.
Poi sentii una voce che mi riscosse: «Mike!» Una mano forte mi afferrò per un polso e mi trascinò via. Era il sergente, il mio capo.
Acquisii consapevolezza di ciò che avevo fatto. Ero sgomento: avrei potuto chiuderla dopo un pugno e invece mi ero lasciato travolgere dalla rabbia.
«Gesù, Mike. Lo hai steso.»
Avevo le mani rosse di sangue. Guardai la faccia che avevo massacrato di botte. Non ero solito comportarmi a quel modo. Mi vergognavo di me stesso.
«Fatti da parte, Mike» disse il sergente. «Anzi, fatti medicare la mano e tornatene a casa. Prenditi un periodo di riposo. Ci penso io. Hai troppi problemi in famiglia.»
Purtroppo aveva ragione.