“Vacanze Romane” scritto e diretto da Nella Tirante con Giulia Eugeni e Matteo Berardinelli in prima nazionale chiude Cortile Teatro Festival 2023, rassegna ideata da Roberto Bonaventura e Giuseppe Giamboi. Il pubblico plaude allo spettacolo vocalizzando persino qualche “Bravi, e belli” a riprova che anche la freschezza dei giovani interpreti si apprezzi. A me pare la mancanza di repliche sia evidente e determini alcuni limiti che sicuramente verranno smussati nel rodaggio dagli artisti.
Se volete sapere quali siano al mero scopo di aprire qualche riflessione, andiamo avanti.
DIREZIONI
Il lavoro unisce la fascinazione per il cinema come “officina del sogno” all’attualità del conflitto Russo-Ucraino. Delicatino. La scarna scenografia (alcuni box di plastica da spostare, accatastare o rimuovere all’occorrenza) lascia il posto a proiezioni a schermo pieno che spesso sono scritte senza effetti, alternate a una ripresa di stampo semi-documentaristico.
Il meccanismo narrativo muove da un classico fraintendimento, “lei straniera e lui autoctono” e parte in leggerezza per poi dirigersi, attraverso la condivisa passione dei due per il grande schermo, verso temi più spinosi. È un rapporto uomo/donna in una Roma grande e poliglotta che cita le accoppiate che abbiamo amato nel cinema italiano negli anni d’oro, con tanto di giri in vespa.
Gli interpreti sono in gamba ma nell’alchimia è come non si fidassero completamente l’uno dell’altra senza stabilire quella complicità effettiva necessaria al dipanarsi di una relazione amicale che dura nei mesi. Sembrano tutti e due spesso in “azione” per citare il gergo attoriale, nel senso che anche le reazioni sembrano volute e di rado nascere da uno spazio vuoto e di scoperta.
Le cause di questo possono essere varie e non attribuibili solo al loro rapporto.
Una, potrebbe essere una regia molto rigorosa che non facilita agli esseri umani dentro i personaggi di respirarsi a sufficienza e nel modo “giusto”. La protagonista femminile è russa e l’interprete, Giulia, parla splendidamente un italiano sporco di questo accento, realizzando alcune gag linguistiche che il pubblico apprezza. Ma perché parlare costantemente a volume così alto? Sembrerebbe sia sorda.
Questo ci interessa solo perché le sfumature emotive di una comunicazione che punta al credibile sono fagocitate se si tiene un volume vocale standard in qualsivoglia situazione. L’unica parola che le esce a volume normale – dialogico – è “Fanculo”.
Tutto ciò che fa parte dei contenuti dello spettacolo, i temi, le atmosfere, il messaggio e la dimensione artistica passa in secondo piano rispetto a questo semplice dettaglio, che – non unico – crea sul palco come due bolle, coreograficamente cooperanti ma in fondo un po’ autonome. A tal proposito va precisato che le coreografie (di danza), che ci sono davvero, sono originali ed efficaci perché irrompono e sorprendono come in un bizzarro film alla francese.
DISEQUILIBRI
Un’altra riflessione complessa che lo spettacolo porta alla mente ma vale per un grande numero di eventi, è quella sulla necessità che pare avere il teatro di comunicare una certa emozione a un dato orario. Decidere a monte cosa l’attore deve comunicare in un determinato istante, lo scherma, di fatto, dalla possibilità di provare qualsiasi cosa, anche diversa da quanto concepito; Ma almeno pulsante.
Sono del modesto avviso che sia meglio provare qualsiasi cosa, anche diversa dal previsto, che comunicare quanto scritto se poi si rappresenta o poco più. Le cose possono sia succedere che non succedere, ma volersi assicurare che succedano è un buon modo per facilitare che non accada nulla.
Ma questo sembra un pochino il nostro teatro (zan zan), un teatro che vuol sapere fin dall’inizio dove si va a parare, e verso lo spazio libero e ignoto non ha grande stima né fiducia, forse perché sfugge, forse perché insondabile, forse perché in fondo non si sa che cazzo sia. Un po’ come la vita insomma. E allora decidiamo tutto sedendoci ai rispettivi posti.
DISAGI
Uno scorcio molto interessante sta nel puntare l’attenzione anche sul disagio della protagonista nell’aver a che fare con gli ucraini rifugiati nel cinema della storia. Nonostante non sia certo lei ad aver scelto il conflitto in prima persona e non se ne senta rappresentata, se ne sente comunque addosso la responsabilità e un po’ la vergogna; non sa come comportarsi, esita, retrocede, ci ripensa, come non riuscisse a distaccare la propria identità individuale da quella sociale e politica che ha alle spalle. È un dissidio che può capitare a tutti, in maniera anche più velata, relativamente a sistemi come la propria famiglia o l’azienda per cui si lavora. Non sappiamo più dove finisca la storia e iniziamo noi, ci sentiamo colpevoli di colpe non commesse e possiamo provare imbarazzo verso l’altro.
DI VISIONI
A fine spettacolo io e i miei compagni scambiamo due parole con un referente dell’organizzazione, che spiega come gli artisti abbiano avuto il merito di realizzare una performance davvero di stampo “punk”. Nel senso che il luogo è bello – l’Arena Iris di Ganzirri a Messina – ma qui spesso le regolazioni luci vengono fatte nei 50 minuti subito precedenti alla replica, col pubblico “che pressa”. Ragione in più per giustificare le parzialità di cui sopra. Abbiamo assistito a un debutto assoluto e ciò porta in sé fascino e turbamento. Dice, in maniera generale: “Sono stufo della banalità a teatro, e dell’attualità. Bisognerebbe ritrovare la leggerezza alla Calvino, l’originalità. A me interessa questo, per questo lavoro poco.”
Seduti al tavolo di un kebabbaro dopo la fruizione, chiedo a un valido attore messinese che ha assistito a molti spettacoli se effettivamente – come a me sembra – il CTF punti su spettacoli per lo più “convenzionali”. Lui conferma l’opinione personale, ma l’aspetto più interessante è nel chiedersi, se davvero così è, come mai. Nella chiacchierata egli reclama la necessità di un pubblico “colto” che a mio avviso è un poco utopia, specie in certi contesti. “Ormai è tutto marketing” ribatte, volendo indicare come anche in arte sia fondamentale comunicare, mostrare, semplificare per sopravvivere, se si vuole andare avanti, vivere di ciò che si fa. Questo allevia la presa in carico di “rischi” che porterebbero poco pubblico. Rischi che sono già insiti nell’onorevole scelta di lavorare con la scena e con l’immaginario, ma vengono ridotti a un minimo più o meno gestibile. Esiste l’assoluta libertà? Fare arte, vuol dire essere “punk” a prescindere? Difficile stabilire quanto sia bene proporre originalità e opere visionarie se dopo si rischia di non poter proporre più nulla, visto che magari “Chi viene una volta poi potrebbe non tornare”. È un discorso su cui non sarebbe onesto voler mettere qui un punto e una risposta netta.
DIVERGENZE
La strada da percorrere nella città aperta del teatro si scopre in itinere, secondo i propri strumenti e mezzi. In questo dedalo di gusti, incontri e possibilità, idealmente ognuno è libero di dire e fare la propria, se riesce.
L’opera a mio gusto più bella fruita al CTF rimane “La vita ha un dente d’oro” di Claudio Morganti e Rita Frongia, che nel suo apparente nonsense – nutrito di estrema e interessantissima presenza attoriale – restituisce qualcosa di molto essenziale e non solo a livello di scrittura e intellettuale, bensì come intuizione oltre il razionale. Quello in cui tutti spesso ci muoviamo.
Se avete visto la prima di “Vacanze Romane” e avete opinioni diverse, o in parte sovrapponibili, dite la vostra nei commenti, inauguriamo un piccolo dibattito. Sicuramente ciò che vien fuori da una pluralità di voci è più interessante di ciò che arriva da una singola campana.
Il vostro amichevole attore di quartiere,
Lelio Naccari