Il segno dei quattro è il secondo romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, pubblicato nel 1890, con protagonisti due famosissimi personaggi letterari, Sherlock Holmes, il detective per antonomasia, la figura più celebre della storia del giallo ed il dottor Watson, il compagno di avventure, sotto le cui modeste spoglie si celava l’alter ego dell’autore. In questa avventura sono impegnati in un’indagine quanto mai intricata, tra sanguinosi delitti e tesori trafugati, che conduce il lettore dalla nebbiosa Londra al caldo e remoto arcipelago delle Andamane.
” Quante volte le ho detto che, una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”
Trama del libro “Il segno dei quattro”
Sherlock Holmes non riesce a trovare piacere in una vita senza attività, senza poter far funzionare a pieno il suo cervello, si annoia ed è in uno stato di depressione tanto da rifugiarsi nell’uso della cocaina, con disapprovazione di Watson, che vive ancora in casa di Sherlock Holmes, al 221B di Baker Street, e cerca attraverso la scrittura di riscattare i successi di Holmes, che invece non ha alcun interesse per l’autopromozione e lascia le vittorie alla polizia.
“A momenti di grande forza e vitalità, seguivano in lui periodi di ozio e pigrizia. E lo conoscevo abbastanza bene per capire che uno di questi stava iniziando proprio in quel momento.”
La situazione cambia quando vengono contattati da una giovane donna di nome Mary Morstan, che chiede il loro aiuto nel risolvere il mistero della scomparsa di suo padre, il capitano Arthur Morstan, ufficiale dell’esercito britannico appena tornato dall’India.
Dopo quattro anni dalla scomparsa, la signorina Morstan ricevette una perla e da allora ne riceve una ogni anno, nello stesso giorno da un anonimo benefattore, e ora questo benefattore desidera incontrarla per svelare il segreto di suo padre, la signorina Morstan decide così di rivolgersi a Homes e a Watson per farsi accompagnare.
All’appuntamento trovano il figlio del maggiore Sholto, il quale racconta che suo padre, al ritorno dall’India, aveva portato con sé l’immenso tesoro di Agra. Tuttavia, un giorno ricevette una lettera che lo terrorizzò profondamente e poco dopo morì. Prima di sparire, però, confessò ai suoi figli che il capitano Morstan era deceduto e, temendo di essere accusato di omicidio, nascose il suo cadavere. Inoltre, rivelò l’esistenza del tesoro segreto e spiegò che una parte doveva essere destinata alla figlia di Morstan, ma spirò prima di svelare il suo nascondiglio. La mattina seguente al decesso, la stanza del maggiore fu scoperta in disordine e sul corpo si trovava un biglietto recante la scritta “il segno dei quattro“.
Holmes e Watson decidono di accettare questa indagine e si recarono dal fratello di Taddeo, Bartolomeo Sholto, trovandolo però assassinato e derubato del tesoro, trovando anche accanto al suo cadavere la scritta “il segno dei quattro”.
Scoprono che il tesoro nascosto è collegato a un crimine commesso durante l’epoca coloniale britannica in India. La ricerca del tesoro si rivela pericolosa, con intrighi, tradimenti e omicidi.
“… la dimostrazione lampante della vera grandezza dell’uomo consiste nella sua capacità di percepire la propria piccolezza”
Recensione
Ho iniziato la saga dell’investigatore più famoso della letteratura e dopo aver terminato il primo romanzo ho iniziato questa seconda avventura.
Ambientato nella Londra vittoriana, il romanzo ci catapulta in un’ Inghilterra dell’ottocento noir, tra le sue strade umide e i vapori del Tamigi, dove si inizia anche a percepire un periodo di fermento, pieno di contraddizioni, soprattutto per le differenze tra alta borghesia e ceti più bassi della popolazione.
In questo contesto impariamo a conoscere meglio il famoso investigatore e ad apprezzare altre sfaccettature del carattere di questo bizzarro personaggio, che annoiato dall’inattività oscilla tra crisi depressive, che cura con l’utilizzo della cocaina, e il ruolo del perfetto detective. Il rapporto tra Holmes e Watson è sempre protagonista e crea dinamismo e divertimento. In questa avventura oltre al mistero troviamo anche una storia d’amore.
La narrazione è piena di flashback che vanno nel passato, purtroppo, come è accaduto anche nel romanzo precedente, lo stile non è molto di mio gradimento, la partenza è sempre ottima, ma quando si entra nel vivo della storia faccio fatica a seguire gli avvenimenti, perdo il focus e la fluidità della lettura. Nonostante ciò non si può resistere alla tentazione di arrivare alla verità investigando insieme a Holmes e Watson. Alcune frasi risultano sessiste e omofobe, quindi ricordiamoci sempre il periodo in cui il romanzo è stato scritto.
Incipit del libro “Il segno dei quattro”
Capitolo primo
La scienza del ragionamento deduttivo
Sherlock Holmes prese un flacone dalla mensola del caminetto e una siringa ipodermica da un elegante astuccio di pelle. Con le lunghe dita, bianche e nervose, inserí l’ago sottile all’estremità della siringa e arrotolò la manica sinistra della camicia. Osservò pensieroso per un po’ l’avambraccio striato di vene e il polso, segnati dalle cicatrici di innumerevoli punture. Infine inserí a fondo la punta acuminata, premette sull’esile stantuffo, poi si abbandonò nella poltrona di velluto con un profondo sospiro di soddisfazione.
Da molti mesi, per tre volte al giorno, assistevo a quel rito, ma non mi ci ero ancora abituato. Al contrario, quello spettacolo mi irritava sempre piú, e di notte la coscienza si ribellava dentro di me perché non trovavo il coraggio di protestare. Molte volte mi ero ripromesso di dirgli chiaramente come la pensavo su questo argomento, ma era proprio l’atteggiamento imperturbabile e indifferente del mio compagno che ne faceva la persona meno adatta a cui osare fare delle osservazioni. Le sue notevoli capacità, i suoi modi autorevoli e le sue straordinarie qualità, che avevo avuto modo di conoscere direttamente, mi rendevano incerto ed esitante a contrariarlo.
Tuttavia quel pomeriggio, forse per il Beaune che avevo bevuto a pranzo, o perché ulteriormente esasperato dalla sua deliberata volontà di rendere palesi i comportamenti, sentii improvvisamente che non avrei piú potuto trattenermi.
«Che cosa si inietta oggi? – chiesi – morfina o cocaina?»
Sollevò languidamente gli occhi dal vecchio volume in caratteri gotici che aveva di fronte. «Cocaina, – mi rispose, – in una soluzione al sette per cento. Desidera provarla anche lei?»
«No, grazie, – replicai in tono asciutto. – La mia salute non si è ancora del tutto rimessa dalla guerra afghana, e non posso permettermi di abusarne ancora».
Holmes sorrise di fronte alla mia irruenza. «Forse lei ha ragione, Watson, – ammise. – Sicuramente, la cocaina è deleteria per il fisico. Ma io trovo che stimoli e illumini la mente in un modo cosí speciale che i suoi effetti collaterali sono del tutto trascurabili».
«Ma insomma! – protestai con impeto. – Pensi al rapporto costi-benefici! Può darsi che, come dice lei, il suo cervello ne risulti stimolato e risvegliato, ma si tratta di un processo patologico, morboso, che comporta un’accelerazione nel mutamento dei tessuti, e può finire col produrre una debolezza permanente. Lei, del resto, è conscio della reazione negativa che provoca sul suo umore. Secondo me il gioco non vale la candela. Perché vuole rischiare, per un piacere effimero, di perdere quelle straordinarie facoltà di cui è stato dotato? Si ricordi che non le parlo soltanto da amico, ma anche in veste di medico e come tale responsabile della sua salute».
Holmes non sembrava affatto offeso: uní le punte delle dita e appoggiò i gomiti sui braccioli della poltrona, come chi si pregusta una piacevole conversazione.
«Il mio cervello, – cominciò, – è refrattario a ogni forma di ristagno intellettuale. Datemi dei problemi da risolvere, o del lavoro da sbrigare, o il piú inesplicabile crittogramma da decifrare, o l’analisi piú complessa da chimificare e mi troverò nell’habitat che mi è piú consono: allora potrò fare a meno degli stimolanti artificiali; ma io aborrisco la monotona routine dell’esistenza: adoro gli stati di esaltazione mentale. È il motivo per cui ho scelto questa particolarissima professione, anzi me la sono creata, dato che sono unico al mondo».
«L’unico poliziotto privato?» domandai sorpreso.
«L’unico poliziotto privato consulente, – rispose. – Io rappresento l’ultima e suprema corte d’appello in materia investigativa. Quando Gregson, o Lestrade, o Athelney Jones non sanno districare il bandolo della matassa, il che, tra parentesi, accade abitualmente, il caso viene sottoposto a me. Io esamino i dati, come fa un esperto, poi pronuncio il mio parere da specialista. In questi casi non reclamo alcun riconoscimento. Il mio nome non appare sui giornali: la mia massima gratificazione sta nel lavoro di per se stesso e nella soddisfazione di aver trovato un campo di applicazione per il mio speciale talento. Del resto, lei ha avuto qualche occasione di sperimentare il mio metodo di lavoro nel caso di Jefferson Hope».
«Già, infatti, – riconobbi con maggiore disponibilità, – e nulla mi ha mai colpito tanto da quando sono al mondo. Anzi, ho voluto trascrivere i fatti piú salienti in un libriccino per il quale ho scelto il titolo piuttosto fantasioso di Studio in rosso».
Holmes tentennò il capo con espressione sconsolata.
«Gli ho dato un’occhiata, – dichiarò, – e francamente non posso congratularmi con lei. L’investigazione è, o meglio dovrebbe essere, una scienza esatta, e dovrebbe essere trattata con freddezza, senza commistione di emozioni. Lei invece ha cercato di tingere la vicenda di romanticismo, il che è un po’ come inserire un romanzo rosa o una fuga d’amore entro la dimostrazione del quinto teorema di Euclide».
«Ma l’elemento romantico esisteva davvero, – ribattei. – Io non potevo modificare i fatti».
«Alcuni di questi dovrebbero essere eliminati, o almeno bisognerebbe trattarli secondo un giusto senso delle proporzioni. L’unico aspetto rilevante nel caso in questione, che mi ha poi consentito di risolverlo, è stato un singolare tipo di ragionamento analitico che procedeva a ritroso, dagli effetti alle cause».
Fui irritato dalle sue critiche a un lavoro che avevo scritto apposta per compiacerlo. Inoltre ammetto che mi dava sui nervi l’egotismo, con il quale sembrava pretendere che ogni riga del mio opuscolo fosse dedicata esclusivamente alle sue imprese. Piú di una volta, in tutti quegli anni da quando abitavo con lui in Baker Street, avevo notato che sotto i modi tranquilli e apparentemente pedagogici del suo agire si nascondeva una piccola forma di vanità. Comunque non replicai nulla, e me ne stetti seduto a massaggiarmi la gamba ferita. Molto tempo fa il proiettile di un fucile Jezail me l’ha trapassata da parte a parte e, sebbene questo non mi impedisca di camminare, mi duole ogni volta che cambia il tempo.
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